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Le spanakopita (catalane) di Anna

La felicità di una confezione di pasta fillo che sembra un gioco di origami e la meravigliosa scoperta che le spanakopita si congelano benissimo.

Anna cucina e cucina per davvero. In genere mi chiede di allacciarle il gembiule con le meline e poi non le servo più, mi scaccia con la mano e con il corpo, annunciando che deve fare tutto lei. Per davvero mamma!
Io lavo e sorveglio con un occhio laterale.

Se avete sotto mano una confezione di pasta fillo non rinunciate a giocare agli origami, qualunque età abbiate. Per il ripieno fate un poco come volete e come vi detta il cuore e la dispensa, noi abbiamo modificato in versione catalana la ricetta classica greca.

1 confezione di pasta fillo
200 g di feta possibilmente di pecora
250 g di spinaci già cotti
1 cipolla
+ nella versione catalana pinoli e uvetta
4 cucchiai di olio extravergine di oliva
burro o olio per spennellare la fillo

In una padella larga fate soffriggere la cipolla tritata finemente nell’olio extravergine di oliva, quando è trasparente aggiungete gli spinaci e mescolate con cura, aggiungete i pinoli tostati e le uvette ammollate, quando tutto sarà ben incorporato spegnete e lasciate raffreddare.
Aggiungete la feta sbriciolata solo quando il composto sarà freddo.
Con delicatezza separate a due a due i fogli di pastafillo. Stendetene uno sul piano, spennellate con olio o burro e ricoprite con il secondo foglio. Ritagliate delle strisce regolari di circa 10 cm di larghezza. sistemate all’inizio di ogni striscia un poco del composto, quindi ripiegate per formare un triangolo e poi ripiegate ancora riportandolo sempre verso al bordo del rettangolo (più complicato a dirsi che a farsi!).
Spennellate con olio o birro fuso e infornate in forno gi caldo per circa 15 minuti, finché non avranno un bel colore dorato e un profumo svenevole.
Si conservano in frigo un paio di giorni e perfettamente in colgelatore se li congelate separati da strati di carta da forno.

la (diabolica) feta al forno di Martha

La cosa è di una semplicità sconcertante, ma toccava averci pensato.  E pensarci ci ha pensato quel “demonio” di Martha Stewart, perché Martha è così, credi di poterla accantonare per altre mode più estetiche, più minimali, più hipster, salutiste, di spirito europeo (etc etc) ma alla fine ci ricaschi. Perché Martha è il rassicurante abbraccio delle cose che funzionano, semplici, semplicissime a volte, dai pon pon di carta velina, ai boudt cake misurati in tazze.
Pazienza poi se tocca sorvolare sulle crepe che si intravvedono nel suo universo di perfezione, in cui casalinghe perfette (e disperate) arricciano pacchetti di Natale a partire da metà agosto, cuciono a mano un necessaire per raccogliere le fatture di casa, nascondendo la bottiglia (di gin) nell’ordinatissimo sgabuzzino delle scope.

queso de cabra frito con miel de azahar

è più o meno da quando viviamo a Barcellona, e comunque da quando ho fatto la prima razzia di libri in catalano/castillano che volevo buttarmi su questa ricetta e decidermi a friggere anche il formaggio. Poi mi mancava l’occasione e a volte pure il coraggio (vogliamo tentarlo un calcolo a spanne di calorie e grassi insaturi?!? forse meglio anche no…), così ho rimandato fino a quando son riuscita a mettere a tacere la coscienza, accantonando la barbabietola e abbracciando (ipocritamente…) il kale.

dalla zuppa al risotto

Se non è zuppa è pan bagnato, certo, ma pure il risotto non ci sta poi male. Storia semplice questa e molto, molto dal vero, perché se una sera di autunno appena annunciato arrivano a cena due amici senza preavviso, lo scampolo di zuppa che avanzava nel frigo non basta a fare la cena.
Si potrebbe allungar la minestra, tirar la coperta ma si rischia di lasciar qualcuno con la fame e con i piedi scoperti. Eccolo allora che fa capolino pure qui a Roma, dove in effetti lo cuciniamo ben poco, un pacchetto di riso (Carnaroli persino). Basterà una cipolla e poco più e non ci accorgeremo neppure di aver dimenticato, come sempre, di comprare il pane.

babaganoush (in assenza)

Che differenza passa tra il babaganoush e il caviar d’aubergines? E cosa resta quando il frullatore resta e si perde la tahina?
Questioni oziosette certo, ma fino a un certo punto, che hanno a che fare con la consistenza, gli strumenti e sì pure gli ingredienti.
Quando un secolo fa (era il 2008, gloups!) pubblicavamo la ricetta di quella specie di mousse che compariva spessissimo sulla tavola ancora studentesca (!), con invitati sempre imprecisi ma in compenso costantemente affamati, era il vissuto francese. L’avevamo “imparata” a Parigi e da lì in poi propinata a go go. Si procedeva (e si procede) spediti: melanzane in forno e poi mixer (robotino da cucina insomma) ma anche la forchetta e un po’ di lavoro di polso in mancanza (frequente) di strumenti, poi lo yogurt e l’aceto.

L’ascendenza però, lo sapevamo già allora, era mediterranea, libanese in particolare ma mediorientale in generale, e negli anni questo mezé ha trovato nel nostro lessico di cucina il suo nome da mille e una notte, babaganoush appunto. Non che le due creme siano esattamente la stessa cosa: una vuole la tahina, l’altra lo yogurt, una il limone l’altra l’aceto, per non parlare della consistenza più granulosa per il caviar, più fina per il baba. Ma è anche vero che in funzione della dispensa le due scuole si sono spesso mischiate, usando lo yogurt al posto della tahina (come del resto già predicato per l’hummus), ma prediligendo il limone e l’uso del frullatore….

hummus, quello classico

Siamo nella settimana del nostro compleanno (!) e siamo sparpagliati nuovamente tra i monti, Parigi e Roma; il computer (quello mobile che segue il grosso dei lavori di aggiornamento) è definitivamente oscurato e una certa pancia in crescita imbarazzante rende difficile allacciarsi le scarpe ma anche aprire lo sportello del forno… insomma cucina a balzi e saltelli e desiderio di essere semplici, semplici. Così, complice anche un assiduo visitatore che si è spulciato minuziosamente l’indice di queste pagine abbiamo scoperto che se abbiamo postato hummus di cicerchie, di piselli, di lupini, di fagioli e di carciofi la versione originale, quella che in questi anni, prima e dopo il blog, abbiamo cucinato miliardi di volte per cene a numero imprecisato, feste, pic nic e anche pranzi solitari semplicemente non c’era. Eccola dunque, con dosì molto, molto ad occhio, come succede sempre con le cose che si conoscono troppo bene.

di un barattolo di sedano rapa della val di Gresta

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Al Trentino chissà perché facciamo poco riferimento. Sarà che finisce per essere nelle nostre vite un tantino raminghe un posto un po’ di transito e soprattutto di rifugio, sarà che ha una generosità di secondo grado che va indagata un po’ più a fondo che in altri luoghi più sfacciati, ma insomma quando si viene qui si tende a tirare i remi in barca e a godersi poche cose rassicuranti. Sempre quelle. E forse proprio questo è il sapore di casa.
Ma l’autunno qui è una meraviglia, e se non fosse tutto sempre così dannatamente di corsa, sarebbe il tempo di cercare le scarpe da montagna infondo all’armadio e mettersi su un sentiero in cerca di funghi, ma pure di foglie e di colori. Temo però che in queste ore corte, troppo piene di cose, di valigie e ancora (sigh!) di traslochi, una giornata così sia un miraggio, anche se non fa poi male credere ancora alla moltiplicazione del tempo. Vedremo.
Intanto ieri sera, prima che il fotografo riprendesse la via del sud, toccava mettere insieme qualcosa come una cena, pescando dalla dispensa generi commestibili, non avendo avuto il tempo(!) di transitare per il banchetto della Fulvia sabato mattina. E allora?
Allora spunta fuori, e molto a proposito, un vasetto di “foglie” di sedano rapa, che poi in realtà foglie non sono…

ketchup maison

Che cosa può mai contenere una valigia in viaggio lungo le rotaie da nord a sud, dalle Alpi al Tevere passando per il Reno (inteso però come quello bolognese)? vestiti, sì certo, scarpe, scialletti, le prime calze, una quantita imbarazzante di borsine di stoffa, macchina fotografica, vari caricabatterie, Le metamorfosi di Ovidio, I misteri del Ragno, il Viaggio in paradiso, il portatile, 5 o 6 mazzi di chiavi e 2 barattoli di ketchup.

croccante di …

La notizia l’aveva riportata il fotografo da Barcellona, robe esotiche che si trovano e si mangiano solo lì, ideuzze forse banali dopo che qualcuno ci ha pensato, però carine, così carine…
Ovviamente il fotografo, nella valigia mingherlina che imbarca e sbarca tra l’Italia e la Spagna, si è guardato bene dall’includere non tanto un campione, ma quanto meno qualche dettaglio e così per replicare ci siamo mossi a occhio.

Il croccante in sè era facile: nocciole e mandorle (2/3 e 1/3), tritate però non troppo fini.
Per la “colla” invece si è posto il problema: caramello o miele?  poi visto che volevamo una copertura uniforme e consistente, ci siamo buttati sul primo.
La faccenda più difficile (a parte farsi le trecce per giocare nella foto) è stato scegliere il formaggio, sì perché questa cosina con lo stecco è un croccante di formaggio, una specie di Magnum caseario. E scherzi e giochi a parte il risultato è delizioso, provare per credere: si torna bambine, trecce comprese.

cake cioccolato e pistacchi (e sono 500)

Quanti giorni esattamente siano passati dal primo post della cucina di calycanthus è un calcolo troppo “complicato” per chi già fatica con le proporzioni. Diciamo qualcosa come un anno e altri dieci mesi moltiplicati per zuppe (ne abbiamo fatte tante..), ritratti alimentari e alimenti ritratti, pdf (12!), arrosti con la frutta (ritratti sempre nudi), quache recensione, infiniti viaggi in treno, cartoline siciliane, zingarate toscane, dolcetti, biscotti e persino minne e così, post dopo post, siamo arrivati a 500. Non è che ai compleanni e agli anniversari saremmo poi così affezionati, anzi ci piacerebbe di più l’idea di festeggiare i non compleanni che fa più Alice (forse il nostro pdf preferito), ma questo numero rotondo e dinamico ci sta simpatico e allora è finito nel titolo, nei nostri pensieri e nell’impasto ultra veloce di questo cake…

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