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Collorelle siciliane

Se mio padre legge che le ho chiamate “collorelle” farà il diavolo a quattro. Per lui son “cudduredde/i” con quella “e” che rimane sospesa tra i denti a mezza via con una “i”, ma ambigua, acennata, con dentro quel gesto dal basso verso l’alto che solo in Sicilia vuol dire no invece che sì.

Tutti i popoli del mondo dicono no muovendo il capo lateralmente e dicono sì muovendo quel medesimo capo lungo l’asse verticale, i siciliani no, i siciliani dicono, anzi accennano a un no (in realtà molto definitivo) muovendo leggermente la testa dal basso verso l’alto.
Da questo si dovrebbe poter capire perché in Sicilia una ricetta ha mille versioni e tutte e mille pretendono di essere l’unica, l’autentica, l’assoluta! A garanzia si chiamano in causa numi tutelari familiari da tre o quattro generazioni, la zia Maria, la nonna Concettina, le cugine… tutte femmine e tutte da secoli riunite attorno al tavolo di marmo della cucina a impastare, spesso assieme, quando l’occasione lo richiede.

Così è di questi dolcetti che per me erano rimasti in fondo un racconto mitologico, fino a questo Natale.


Mio padre, nato a sud dei monti Erei in un piccolo paese nei dintorni di Caltagirone, aveva delle zie e delle cugine di città (di Caltagirone appunto…). Le zie, ed in particolare una, la zia Gina, avevano l’eredità perduta di una fabbrica di ceramiche e un negozio di mode in cui mio padre, bambolotto di sei mesi, finì esposto nella vetrina in completo di lana d’angora e boccolo-tirabaci sulla fonte.
Negozio a parte le zie, e le cugine, Aurelia e Letizia, a metà dicembre, puntuali, si mettevano al lavoro. Era lavoro collettivo e impegnativo, con molti chili di impasto e molte ore davanti, ma il risultato era un merletto finissimo con un ripieno di semola, mandorle e miele. Roba da mille e una notte. E nelle mille e una notte il ricordo era rimasto prigioniero, ah ‘e cudduredde/i, quelle vere, mica quelle schifezze/rozze che fanno a Giarre (ndr il paese di mia madre…)

E le codduredde/i, o collorelle son rimaste solo memoria. Ci è voluta la testardaggine e l’amore di Lucilla per decidere che quest’anno andavano fatte sì, o sì. Così, con la ricetta arrivata via watsup da Maria Antonietta (prontipote delle cugine) si è messa pazientemente al lavoro, con l’intrepida incoscienza di quando si mette in cantiere una ricetta tradizionale che non solo non si è mai vista fare, ma nemmeno mai assaggiato (so di cosa parlo…) .

Il risultato ha premiato lo sforzo e alcune cose si sono capite lungo il cammino, come ad esempio la cottura per la quale non c’era molto appiglio nella ricetta delle zie…

La ricetta (delle zie, in realtà cugine di mio padre, di Caltagirone)

per la pasta
1 kg di farina
250 g di strutto (per noi burro)
250 g di zucchero

Per il ripieno:
500 g di miele (per noi castagno, ma sospetto in Sicilia sarebbe di zagara)
300 g di farina di semola
200 g di mandorle tostate e tritate
scorza di arancia grattugiata
100 ml circa di acqua

Per la pasta formate una fontana sul piano di lavoro al centro unite lo strutto o il burro ammorbidito e cominciate a lavorare con la punta delle dita, incorporare poca acqua alla volta fino ad ottenere un impasto omogeneo e liscio. Raccoglietelo in una ciotola copritelo con un piattino e uno strofinaccio e lasciatelo riposare tutta la notte.

Dedicatevi al ripieno. In un tegame dal fondo spesso scaldare il miele con l’acqua, unire le mandorle tostate e tritate, la scorza di arancia grattugiata e quindi la semola poco per volta. Mescolare finché il composto non si addensa ma senza arrivare al punto che sia troppo duro e difficile da maneggiare.

Riprendete l’impasto e stendetelo prima al mattarello e poi con l’aiuto di una macchinetta per la pasta fino ad ottenere delle lunghe strisce. Con l’impasto formate dei salsicciotti che avvolgerete con la pasta stesa, confezionando con pazienza degli anelli.
Decorateli quindi con dei piccoli pizzichi sull’impasto (noi abbiamo usato le pinzette per le sopracciglia…) quindi cuocete in forno a 180°C per circa 15/20 minuti, e sfornate non appena iniziano a indorare.


Note. Se volete ammirare gli strumenti bellissimi con cui si realizzano i pizzichi guardate qui, vi farete anche un’idea più precisa di come procedere con l’arrotolatura dell’impasto. Io purtroppo questa volta mi sono ricordata di Chez Munita troppo tardi e pensare che avevo pure lasciato un commento… ma son passati 11 anni, (ehm..)

Escudella de Nadal

In Catalunya la notte di Natale richiede escudella, un piatto tradizionale, anzi tradizionalissimo che non ammette deroghe. Si tratta di un ricco brodo di carne servito con galets, conchiglioni rigati giganti di pasta di semola (ebbene sì, la pasta è molto più presente nella cucina catalana di quanto si potrebbe immaginare) e un bel pezzettone di pilota, una sorta di polpetta/polpettone che viene cotta nel brodo così da arricchirlo ancora un poco…

La ricetta è di casa, ma di una casa speciale, il BonVent che non è semplicemente un negozio ma un piccolo universo prezioso di calore mediterraneo.

Le parole per raccontarla, descriverla e prepararla sono le loro ed hanno già tutto un sapore speciale (noi abbiamo solo tradotto)

Ingredienti per 4 persone (abbondanti)

1 petto di gallina
200 g di stinco di vitello lardellato
200 g di punta di petto di vitello
1 piedino di maiale
1 osso di prosciutto
1 osso vertebrale
200 g di sanguinaccio
200 g di salsiccia

1 pastinaca
1 rapa
1 cipolla
2 patate grandi intere
2 carote grandi intere
1 porro
1 costa di sedano
mezza verza
200 g di ceci già ammollati

150 g di carne tritata di maiale
150 g di carne tritata di vitello
1 uovo
1 dente di aglio
pangrattato
pinoli
latte
prezzemolo
tartufo nero
sale
farina

galets (conchiglioni rigati)

Sistemiamo una pentola grande piena di acqua sul fuoco e aggiungiamo subito nell’acqua fredda le verdure, le carni (escluso il sanguinaccio) e il sale. A noi piace legare ogni pezzo di carne, in modo che durante la cottura non si sfaldi e faccia miglior figura sul piatto di portata.

Quando il brodo inizia a bollire lo schiumiamo e aggiungiamo i ceci che abbiamo tenuto in ammollo la notte precedente. Tappiamo la pentola e lasciamo cuocere a fuoco lento per un’ora.

Mentre la pentola bolle procederemo a preparare “la pilota”. In una terrina sistemiamo le carni tritate di manzo e di maiale, assieme all’uovo, il dente di aglio tritato finemente, un pugno di pinoli, il pane grattugiato, un poco di prezzemolo e due pizzichi di sale. A casa nostra usiamo aggiungere un tocco speciale: due o tre lamine di tartufo nero, perché regalino aroma speciale all’impasto.

Quando tutti gli ingredienti sono nella terrina, aggiungiamo un goccio di latte che ci aiuterà ad amalgamare bene gli ingredienti tra di loro. Completata questa operazione, con le mani formiamo delle polpette che poi infarineremo. In alcune case “la pilota” è un’unica grande palla che viene divisa quando viene servita. A casa nostra ci piace farla in formato individuale e servirla in ogni piatto.

Dopo averla infarinata si incorpora nella pentola dove stanno bollendo le verdure e le carni, e infine si unisce anche il sanguinaccio.

Lasciamo bollire la pentola 2 ore in totale.

Terminata questa preparazione si cola il contenuto della pentola per separare il brodo. Con il brodo si prepara la “sopa” aggiungendo la pasta tradizionale che è “el galet” (il conchiglione rigato). Per questa occasione i conchiglioni vanno scelti di un formato grande.

Il brodo con la pasta (la sopa) è il primo piatto di questo giorno di festa, dopo si servono le carni e le verdure.

A casa nostra siamo abituati a servire questo primo piatto di brodo e galets ma poi la maggior parte di noi vuole ripetere e ne approfitta per aggiungere qualche verdura e “la pilota” al brodo. Quando si consuma il brodo assieme alle carni e alle verdure il piatto prende il nome di “Escudella barrejada”.

Le quantità che prepariamo sono sempre molto generose visto che per seguire la tradizione approfittiamo dei resti delle carni per preparare il piatto stella del giorno 26, santo Stefano, che sono i cannelloni! Un’altra prelibatezza della cucina catalana.

La crostata alla crema perfetta di Sara

Abbiamo conosciuto Sara d’estate qui a Barcellona. Una di quelle cose belle che ogni tanto succedono nella rete e dalla rete escono, diventano fisiche e molto reali.

Era la fine di giugno, faceva caldo, nulla sapevamo di mascherine, distanze, precauzioni e confinamenti. Si viaggiava facilmente, si usciva a cena, e in pasticceria c’era solo il profumo incredibile dei croissants, senza code alla porta, senza gel disinfettante. Un’altra vita a guardarla da qui.

Abbiamo pranzato insieme nel nostro mercato, al Bar Joan dove, un poco come al Maigret di Simmenon a cui conservano il tovagliolo, sanno sempre quel che ci piace, quello di cui abbiamo bisogno. Abbiamo condiviso indirizzi, abbiamo fatto da guida e alla fine ci siamo ritrovati tutti insieme sul terrazzo di casa per la festa del mio compleanno, già un poco clandestina, ma solo per colpa dei vicini brontoloni.

Insomma un piccolo colpo di fulmine, così come Sara ha scritto nei calorosi ringraziamenti che ci ha dedicato nel suo libro, uscito da poco anzi da pochissimo.

Sara ha una bella storia un poco romantica, un sorriso aperto, una bimba poco più piccola di Anna, gonne svolazzanti e un compagno con cui gioca anche a pingpong e che lo vedi da come la guarda il bene che le vuole.

Ora che siamo tutti un poco distanti, ancora per un poco, tutti questi ricordi sono più preziosi e ci aiutano a immaginare la forza con cui torneremo a codividere e ad abbracciarci, così come è stato in quella sera d’estate sul nostro terrazzo qui a Barcellona.
Mentre aspettiamo ci sono cose che non smettono di viaggiare, i libri e la cucina ad esempio

La ricetta è di Sara, tratta dal suo libro Dolci senza bilancia in cui è proposta in due diverse versioni (morbida e croccante): noi abbiamo scelto quella morbida e aggiunto le mele. Nel libro le indicazioni delle quantità sono in doppia modalità (con e senza bilancia) per non avere nessuna scusa per non preparare un dolce…

La ricetta

Per la frolla:
100 g di burro freddo
4 cucchiai di zucchero a velo (60 g)
1 +1/2 bicchiere di farina (150 g)
1 tuorlo
1 cucchiaio raso di acqua fredda
1/2 cucchiaino di sale

Per la crema:
1 bicchiere + 5 cucchiai di latte (250 g)
2 tuorli
1/2 bicchiere di zucchero (85 g)
2 cucchiai rasi di farina (20 g
1/2 cucchiaino di sale
1/2 bacca di vaniglia o scorza di limone

Taglia il burro a cubetti e versalo in un robot da cucina o nella planetaria assieme allo zucchero a velo (per una frolla più croccante usa quello semolato). Mescola bene a massima velocità alta fino ad ottenere una crema (se si fa con le mani attenzione a non scaldare troppo l’impasto). Unisci il tuorlo, la farina e l’acqua e lavora in modalità pulse finché gli ingredienti non legheranno tra loro. Il composto non deve risultare compatto ma un po’ sbriciolato.
Rimuovilo dal robot e compattalo tra le mani formando un panetto. Posizionalo tra due fogli di carta da forno e stendeli con il mattarello. Lascialo freddare così in frigorifero per 30 minuti.

Preparare la crema.
In un pentolino scalda a fiamma moderata il latte con i semi della vaniglia, incluso il bacello svuotato (oppure con la buccia grattugiata del limone o dell’arancia). Copri il pentolino con della pellicola trasparente, così da trattenere l’umidità senza che evapori. Porta a bollore e rimuovi dal fuoco.
Nel mentre in una ciotola mescola zucchero e tuorli, evitando di lasciarli a contatto fra di loro senza prima mescolarli. Aggiungi il sale e la farina setacciata. Mescola energicamente con una frusta a mano.
Versa piano 1/2 del latte caldo all’interno dela ciotola, mescolando con la frusta continuamente. Una volta ottenuto un composto liscio, rovescialo nel pentolino con ilrestante latte senza rimuovere il bacello e riaccendi il fuoco a fiamma moderata. Dovrai girare finché la consistenza della crema non comincerà a diventare più densa. Di tanto in tanto fermati per vedere se in superficie appaiono delle bollicine: appena le vedrai spegni il fuoco e travasa subito la crema in una ciotola pulita. Adesso è importante continuare a mescolare con la frusta: così diventerà più lucida.
Conservare la crema conservandola con pelicola trasparente a contatto, sempre con il bacello all’interno per conferire più profumo.

Rivesti uno stampo da crostata. Prendi la crema ed emulsionala per qualche secondo con una frusta a mano. Poi usala per farcire la crostata e impiega le rimanenze dell’impasto per decorare il dolce con delle striscioline. Riponi in frigorifero per 30 minuti poi inforna a 170°C in forno preriscaldato con modalità ventilato per 35-40 minuti.

Nota: nella nostra versione in cui abbiamo utilizzato esattamente queste dosi (e non i multipli come indicato da Sara) abbiamo scelto una forma piccola (circa 20 cm di diametro) e abbiamo sistemato sopra alla crema fettine sottilissime di mela irrorate di succo di limone)

Il pesto di popcorn di René Redzepi

Che cosa ci seduce in una ricetta? Il sapore immaginato in bocca a partire da una immagine bella? o anche solo la scelta delle parole, la lista degli ingredienti, il titolo?

Che cosa ci fa decidere di metterla nell’elenco delle cose da fare, domani o prossimamente, che cosa ci fa controllare immeditamante di avere tutto nella dispensa e persino suonare alla vicina perché ci mancano 2 etti di farina?

Credo che, almeno per me, siano un insieme di molte cose, o di cose diverse. A volte è l’immagine a rimanere misteriosamente incollata alla retina, a volte la seduzione di un titolo, o di un ingrediente mai usato; a volte al contrario l’accendersi del ricordo di qualcosa di conosciuto, magari dimenticato, o la volontà di scoprire se funziona ancora.

Certe volte però succede qualcosa di un poco diverso, una seduzione che è più della testa. Qualche cosa che ci intriga per come è stato pensato, immaginato, qualcosa che può rendere simile (con tutte le dovute proporzioni che andrebbero sempre misurate sul campo) anche la cucina all’arte.
I processi creativi sono seduttivi come poche cose nell’universo, quando riescono a suggerire una strada, quando in qualunque forma o materia si esprimono mostrano la trama del ragionamento che ha portato al risultato.

Il piatto certo, ma soprattutto tutte le sue ragioni.

Quando a Cibo a Regola d’Arte di due anni fa salì sul palco Massimo Bottura per parlare del suo progetto di Cibo per l’Anima c’era da rimanere a bocca aperta. Comprai il suo libro, Il pane è oro, e vincendo la timidezza me lo feci persino dedicare. Lo lascia fuori dalla valigia e lo lessi come una specie di romanzo sul trenino per Malpensa e poi in aereo, una cosa che oggi mi sembra fantascienza, senza guanti, senza mascherina (!). Lo divoravo, lo masticavo probabilmente perché è un libro di storie e di attitudini, che parla di grandi cuochi ma che mostra soprattutto come pensano, come ragionano, non tanto nel racconto comunque sincero che ne fa Massimo Bottura, ma anche e soprattutto attraverso le ricette.

Il gioco serio di Bottura era semplice, ma tremendamente complesso. Con l’Expo in corso Milano è stata nel 2015 il crocevia dal quale sono passati i cuochi più famosi del pianeta: perché non invitarli a cucinare? Cucinare certo, ma non le materie prime elette, gli ingredienti preferiti, le quantità scrupolosamente misurate seguendo serrate partiture. No, cucinando quel che c’era, anzi quel che avanzava.

Perché l’Expo di Milano a dispetto del suo titolo che si proponeva di trovare l’energia nutritiva (o nutriente?) per il pianeta ha prodotto molti scarti, molto esubero proprio di quel cibo e di quella energia che sarebbe obligatorio non disperdere.
I cuochi invitati accettavano dunque la sfida di cucinare un intero menù senza sapere a partire da quali ingredienti, perché gli esuberi, gli scarti non si possono prevedere ed arrivavano nelle cucine del Refettorio nella prima mattinata. La sera la cena doveva essere in tavola.

Di tutto il libro, letto all’inizio coscienziosamente poi un poco saltellando avanti e indietro, io rimasi incollata a una piccola, piccola invenzione di René Redzepi, il cuoco del Noma.
Per la sua cena aveva a disposizione dei mazzetti non proprio vivaci di basilico, ma niente pinoli, o non abbastanza. In fondo alla dispensa saltano fuori due sacchetti di chicchi di mais, da qui ai pop corn, dai pop corn a una granella che per consistenza, funzione e in parte sapore può funzionare.

Una cosa al posto di quello che non c’è. Non a caso, ma pensando forte.

Io a questo pesto ho pensato tanto, non solo per fascinazione o suggestione, ma anche perché adoro i pop corn. Sono uno dei miei cibi schifezza preferiti (assieme ad altri che non sono pronta a confessare). Li faccio spesso, e da quando c’è Anna ho una scusa in più. Li guardiamo scoppiettare attraverso un coperchio in vetro che rende le cose ancora più divertenti, poi ce li spartiamo più o meno equamente.

L’altra sera per qualche incomprensibile ragione ne è avanzata una manciata. Era il momento giusto, finalmente.

La ricetta

è esattamente quella del libro, ho solo omesso il Parmigiano Reggiano perché a volte i pesti mi piacciono marcatamente vegetali. La riporto a modo mio

Per 8 persone
3 cucchiai di olio di semi di mais
30 g di chicchi di mais
1 spicchio di aglio tritato
le foglie di 4 mazzetti di basilico, lavate e tritate
le foglie di 1 mazzetto di coriandolo, lavate e tritate
275 ml di olio extravergine di oliva
100 g di pinoli (ma pure meno)
la scorza grattugiata di un limone
sale e pepe

1 kg di pasta corta (per me rigatoni integrali)
Olio extravergine di oliva per condire
Parmigiano Reggiano grattugiato al momento per servire (io ne ho fatto a meno, mentre invece ho aggiunto la scorza di limone grattugiato sopra)

Preparare i pop corn, quindi frullarli a impulsi fino ad ottenere una granella non troppo fina. Conservare da parte. Preparare il pesto frullando il basilico, il coriandolo, l’aglio e l’olio extravergine di oliva. Quando comincia ad essere omogeneo unire i pinolti.
Versarlo in una terrina e quando la pasta sta già cuocendo aggiungere la granella di pop corn e la scorza di limone. Aggiustare di sale e pepe. Quando la pasta è cotta, scolare conservando pochissima acqua di cottura condire ed eventualmente mantecare con un goccio di acqua. Servire subito

la (diabolica) feta al forno di Martha

La cosa è di una semplicità sconcertante, ma toccava averci pensato.  E pensarci ci ha pensato quel “demonio” di Martha Stewart, perché Martha è così, credi di poterla accantonare per altre mode più estetiche, più minimali, più hipster, salutiste, di spirito europeo (etc etc) ma alla fine ci ricaschi. Perché Martha è il rassicurante abbraccio delle cose che funzionano, semplici, semplicissime a volte, dai pon pon di carta velina, ai boudt cake misurati in tazze.
Pazienza poi se tocca sorvolare sulle crepe che si intravvedono nel suo universo di perfezione, in cui casalinghe perfette (e disperate) arricciano pacchetti di Natale a partire da metà agosto, cuciono a mano un necessaire per raccogliere le fatture di casa, nascondendo la bottiglia (di gin) nell’ordinatissimo sgabuzzino delle scope.

l’aringa in cappotto

Della cucina russa noi fin qui si sapeva ben poco. è toccato lasciare Roma e trasferirsi a Barcellona per cominciare ad avere assaggi dal vero e dal vivo di una tradizione ricchissima e stratificata. Cose misteriose: cioè andare a ovest e incontrare l’est.
In realtà spesso nella vita finisce che la geografia la facciano le persone: nel nostro caso Giulia e Luis, (di cui avevamo già parlato a proposito di una certa mousse di cioccolato vegan) e la zia Tatiana.
Russa, russissima ma trasferita a Murcia la zia Tatiana ha lavorato professionalmente in cucina e si è portata dietro la sua esperienza e la sua memoria infallibile. A lei dobbiamo al ricetta di un borsh superlativo (le cui istruzioni occupavano due pagine e mezza trascritte in cirillico, catalano e infine italiano) pubblicato nella nostra rubrica Allacciate i grembiuli sulla Cucina del Corriere qualche tempo fa. A lei dobbiamo anche questa suntosa aringa col cappotto, eseguita passo passo dalle manine pazienti di Giulia.

sedano rapa intero al forno

Lo abbiamo detto mille volte Yotam Ottolenghi ci piace. E mille volte abbiamo detto che la sua cucina semplice ha però il costo (!) di essere molto lunga (nella lista degli ingredienti, come nella minuzia dei passaggi che per le verdure, il suo cibo preferito, sono spesso tanti…).
Questa ricetta, che è tratta dal suo libro Nopi, è la contraddizione, l’eccezione, l’anomalia e la sorpresa:
3 soli ingredienti
3 soli passaggi

Procuratevi un sedano rapa e un coltello e procedete! non ci sono più scuse…

la torta di mele di Angela

Ci sono giornate che tutto rema contro. Le cose cascano di mano, la batteria della bilancia è scarica, la busta dello zucchero bucata sul fondo, la teglia che ti serve già sporca.
Sarebbe forse più saggio accarezzare per il giusto verso segnali tanto chiari e smettere di insistere, ma quando hai deciso che è il giorno, l’ora, il minuto di infornare una torta non c’è ragionevolezza che tenga. Le uova sono già fuori, lo zucchero (quello bucato che ha già imbrattato mezza cucina..) pure, la farina, le mele e che manca? il lievito sì, e nient’altro. Perché questa torta, che è la geniale evoluzione di un pandispagna, non ha burro, né latte, né olio, sta sù da sola, come una magia bella.

un pane da Oscar

Ci sono amicizie che nascono, si consolidano, crescono su mille fili: ne acchiappi uno e tiri piano, passin passino, ti ritrovi quasi sempre (almeno per noi) in cucina.
La cucina di Oscar è al primo piano di una casa veneziana, proprio vicino vicino al campo dove più ci sentiamo a casa, è piccina e calda, piena di meraviglie di latta azzurra, di carta, di mattonelline uniche, di cesti appesi, di forme e di formine. Sa di tè e di biscotti, sa di pane, di “zaeti” e pure di chiacchiere mentre fuori piove la prima pioggia di stagione. Oscar fa le scale a piedi nudi, abita con una gatta che di nome fa piccola, è illustratore e gestisce una panetteria (per ora) virtuale su Pinterest. Lo inviti a cena ed è una meraviglia perché lui porta il dolce, ma pure il pane, il vino di visciole e certe verdurine di sua invenzione con una panatura leggera di nocciole. Poi chiacchieri e scopri che va a monte di ogni cosa: che i savoiardi nel tiramisù sono i suoi, che le farine per il pane le macina lui, che il tofu si fa in casa (che ci vuole?) e ti domandi pure se abbia un orto a Sant’Erasmo e dove trovi il tempo di dormire.

santelmo, postre misterioso

Quante cose possono entrare in una valigia? Calzini, libri, macchina fotografica, un maglioncino che la stagione non si decide, e poi qualcosa per la pioggia che in Galizia è acqua quasi tutti i giorni, e in ordine sparso tutto quel che si pensa soggettivamente possa servire. Ma quello che è veramente misterioso è ciò che in una valigia (in certe valigie almeno…) si può trovare sulla via del ritorno, soprattutto quando gli spostamenti sono domestici, vale a dire da casa a casa, nel caso della nostra amica Lucilla da Venezia fino alla fine del mondo (quello antico almeno), ovvero la campagna verde di Galizia, e ritorno.
Ne abbiamo parlato altre volte in questi anni e in queste pagine di questa terra, per raccontare di tetilla, pimientos de Padron, ma anche di Pelouro e abbiamo l’impressione che molto, molto altro ci sia da dire: lo faremo speriamo presto quando le valigie saranno le nostre e ci rimetteremo sul cammino, quello vero fino a Santiago de Campostella.
Per ora ci godiamo la meraviglia della valigia di Lucilla da cui per magia escono magie di incarto: la tetilla certo, un salume che ha viaggiato una triangolazione complicata, Padron, ma poi rose del giardino, fiori mai visti, marmellate e soprattutto lui il Santelmo che scriviamo tutto attaccato perché è un unico boccone di cui abbiamo sentito racconti favolosi.

gli gnocchi di farina cotta di Elvira

Ci son cose che rimangono in mente affondate dentro a un cassetto mezzo aperto e mezzo chiuso, e mentre la stagione ristagna diventan buone e persino urgenti all’improvviso. Così una mattina ti svegli e lo sai: è ora di farli gli gnocchi di Elvira quelli solo farina e acqua, un po’ come per la pasta à choux. Ci vogliono 8 minuti 8 e papà si è leccato i baffi, anche con il sugo semplice, che qualche volta la passata di pomodoro e qualche aroma è tutto quel che ci contenta.

la piadina di Silvia (o insomma quasi…)

è passata una vita e un pezzettino dalla nostra gita a casa di Silvia, ma l’atmosfera, il sorriso e il pranzo sono nella nostra memoria come una cosa vivida e fresca. Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere e intanto lei che impastava l’impasto delle piade e poi lo stendeva e lo cuoceva, e noi come due bambine dietro il bancone della sua cucina stupite, sì stupite, che si potesse far così, come se fosse facile.
Ci abbiamo messo tempo, il nostro solito tempo lento, a provare a immaginare di farlo pure noi e poi alla fine ci siamo buttate. è andato tutto bene, anzi benissimo, solo sulla cottura dovremo rivedere qualcosa: la piastra di ghisa scaldava sì veloce ma bruciava pure altrettanto.

gli zuccherini di Gaia

Tra neve e pioggia, pioggia e neve, valigie che non si fa nemmeno in tempo a disfare per conzarle di nuovo ci consoliamo con le incursioni nelle “ricette degli altri”. In questo caso però la faccenda si fa ancora più letterale perché il sacchetto di zuccherini qui sopra è opera di Gaia che ce lo ha portato assieme a un abbraccio durante l’utimo Taste.

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