Eccoci qui con giugno ben avviato ad annunciare che il libro del mese sarà Gazpachos, uscito per Guido Tommasi Editore proprio il 6 giugno di due anni fa.
Ci piacciono le coincidenze e ci aiutano a ricordare. In primo luogo quanto amiamo i gazpachos, tutti quanti e senza distinzioni, e poi quanto la vita possa essere colorata, con il caldo dell’estate sulla pelle e il gusto fresco che sfama e disseta insieme. Lo prendiamo dunque anche come un augurio per l’estate alle porte, per il viaggiare che tanto ci è mancato e per la meravigliosa coincidenza che vuole che almeno questa volta, quel che è buono ci fa pure un gran bene!
La ricetta del salmorejo a pag. 14 del nostro libro
Per 4 persone
700 g pomodori rossi maturi già spellati e privati dei semi 150 g di mollica di pane di due giorni prima 20 cl di olio extra vergine d’oliva 1 cl di aceto di vino rosso 1 dente d’aglio Sale prosciutto crudo sfilettato e uova sode tagliate finemente per la guarnizione
Pelate i pomodori, eliminate la maggior parte dei semi, raccoglieteli in un recipiente capiente e triturateli conservando interamente l’acqua di vegetazione. Aggiungete la mollica di pane spezzettata e l’aceto e lasciate che si ammorbidisca per una decina di minuti. Nel boccale del frullatore sistemate lo spicchio di aglio sbucciato e privato del germe, quindi versate il pane con il pomodoro, frullate fino ad ottenere una crema densa. La quantità di pane può variare a seconda della qualità dei pomodori e del loro grado di maturazione Aggiungete l’olio extravergine di oliva e frullate finché la crema sia uniforme. La consistenza dovrà risultare più spessa rispetto a quella del gazpacho, abbastanza da poter “sostenere” il prosciutto e le uova sode che tradizionalmente sono usati come guarnizione.
Per anni da bambina ho odiato le crostate. In realtà, ma allora non lo sapevo, non odiavo le crostate in assoluto, ma quella che per me era la crostata: una cosa dura come un sasso e coperta di una coltre vischiosa e scura, che riusciva ad essere allo stesso tempo troppo dolce e troppo amara.
Qui tocca fare qualche premessa di archeologia famigliare. Mia madre non faceva crostate, non ne aveva l’abitudine e in generale i dolci non erano la sua passione. Mia nonna aveva altri cavalli da battaglia, su cui si muoveva a suo agio e che esibiva a briglia sciolta appena ci aveva a tiro; dunque la crostata era cosa della zia Anna.
La zia Anna era una sorella di mio nonno, dolce e un poco timida, con occhiali a farfalla anni Sessanta e una vocina flebile che però a tratti le virava garrula.
Ogni estate, appena saputo che eravamo arrivati dal Continente, metteva mano alle opere e sfornava la sua crostata. Arrivava avvolta in carta oleata, amorosamente infiocchettata, accolta con sperticati complimenti e festosi ringraziamenti, tanto che la zia Anna in cuor suo doveva essere convinta che della sua crostata non potessimo fare a meno. Ma appena partita la zia cominciava il calvario di quella crostata che non trovava clienti.
Me la proponevano a merenda e anche a colazione, veniva tirata in ballo appena qualcuno si azzardava a dire che aveva fame, ma dopo la prima fetta tagliata a fatica in quel blocco compatto, la crostata languiva in dispensa e quasi sempre finiva per esser preda delle formiche. A quel punto mia madre, sollevata nel senso di colpa, concludeva con un sospiro che ci toccava proprio di buttarla.
Tutto questo per dire che ci ho messo un poco ad amare le crostate, e ancora di più a decidermi a impastarne. Poi però si sa come vanno queste cose e quando è stato il momento di emanciparmi in cucina, di metterci la mia firma la cosa più sensata, e pure la più ovvia, è stata avventurarmi su un terreno vergine, o quasi. Non dovevo “vedermela” con la mamma o la nonna, ma semplicemente con la zia Anna, difficile poter fare peggio di lei. E da lì son cominciate le crostate.
Dopo tanti e tanti anni di allenamenti iniziati alle medie con una crostata di crema pasticcera e kiwi che era il mio cavallo di battaglia (!) è finita che alle crostate abbiamo dedicato un libro, assieme ovvio ai miei compagni di merenda, Marie e il Fotografo.
Quel libro, uscito nel 2013 per il nostro editore è il nostro primo libro del mese. Ci guarderemo dentro e lo racconteremo per un mese intero, a giugno ne prenderemo un altro, sempre scelto dallo scaffale calycanthus, e così mese dopo mese per un tempo che si annuncia lunghetto (di libri per ora ne abbiamo fatti 22…)
Oggi cominciamo con questa ricetta della crostata di cioccolato al latte, semplicemente perché è la preferita di Anna quando le sue amiche vengono a casa a fare merenda. E lei di crostate se ne intende per molte e molte ragioni, ma di questo parleremo più avanti.
Per una tortiera da 28-30 cm Tempo di preparazione: 30 minuti + 1 ora per il riposo dell’impasto Tempo di cottura: 25-35 minuti circa
250 farina 180 burro 95 zucchero a velo 1 tuorlo 1 pizzico di sale 250 g di cioccolato al latte 100 g di panna fresca 20 g di burro leggermente salato granella di nocciole per decorare
Sul piano di lavoro o nell’impastatrice setacciate la farina con lo zucchero e lavorate con il burro, quindi unite l’uovo e il sale e impastate il tutto velocemente. Quando l’impasto è omogeneo formate la palla e conservatela in frigorifero per un’oretta. Trascorso questo tempo stendetela e foderate una teglia imburrata, foderate con la carta da forno e riempite con i pesi per la cottura in bianco. Infornate in forno già caldo a 180 °C per 15-20 minuti quindi sfornate, eliminate i pesi e cuocete ancora per 5-10 minuti. Fate raffreddare. Preparate la crema: scaldate la panna senza farla bollire, quindi spegnete e unite il cioccolato tagliato in pezzi molto piccoli. Quando tutto sarà sciolto e la crema risulterà omogenea unite il burro per dare lucentezza. Versate la crema nel guscio, livellate e fate raffreddare. Al momento di servire cospargete la crostata di granella di nocciole.