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the old kitchen

Basterebbe il nome a farci sentire a casa, ma dentro e attorno a The Old Kitchen c’è molto e molto di più.
Appena sbarcati a Barcellona, quando c’era una casa tutta vuota che cercava la sua forma, il Mercantic a Sant Cugat fu un luogo di meraviglie. Ci andavamo a “pascolare” tutte le domeniche e anche i giorni normali, con una bimba così piccina che era un fagottino addormentato al calduccio mentre sceglievamo i tavoli, le sedie, il lampadario dove apparechiare la nostra vita qui.
E al Mercantic, in una parada proprio all’ingresso del “paradiso” abbiamo incontrato per la prima volta questa “vecchia cucina”. Incanto di Cecilia e della sua mamma, che da anni ne hanno fatto un progetto di stile e di vita.

bodega la palma

Qui sembra di stare nella storia di Pinocchio, perché la Bodega in questione, che di nome fa La palma, sta pericolosamente ubicata nei percorsi ligi e quotidiani che da casa ci portano a scuola (di Anna) e da scuola a casa. C’è da dire che per fortuna i nostri orari coincidono poco con i suoi, che in generale, cioè, è ancora chiusa all’andata e quasi chiusa al ritorno, per il riposo tra il servizio di mezza giornata e quello della notte. Ma di scuse ce ne sono sempre comunque tante, anzi troppe per fermarsi:  bombe, Vermuth, croquetas e Gandesa.

taste all those

Barcellona è un posto dove, in generale, se un qualche fenomeno è giocoso, divertente, easy…. attecchisce. Qui si trovano i mezzi di locomozione più assurdi, qui si va al mare da marzo a novembre e si balla tutte le domeniche sul sagrato della cattedrale, qui si festeggiano tutti i santi possibili immaginabili e pure tutte le feste pagane. C’è sempre una scusa per ballare, bere e mangiare. Sempre: tutto l’anno e a tutte le età.
Ovvio che in tutto questo il cibo, in particolare quello “di strada”, sia uno spasso. Non tanto, non solo, o forse non più solamente nella pratica delle tapas e del tapear, che per altro le è ingiustamente attribuita (quando invece arriva da una Spagna diversa più capitale e pure pià meridionale), quanto nella velocità supersonica con la quale la città coglie i trends e risce ad appropiarsene con un fare naturale e tranquillo. Non c’è ansia, almeno apparente, nemmeno nei fenomeni più modaioli. Persino il veganismo, giusto per fare un esempio, si presenta più come un’opportunità accanto alle altre che non come un’occasione per fare a botte. Così in tutto il fiorire di mercatini, iniziative, week end ecologici di comida callejera gli hamburger stanno gomito a gomito con il crudismo vegano, i ramen (che sono in fortissima ascesa!) con il vermuth casero, la cucina messicana con la pasticceria francese (anche lei decisamente à la page). Poi xurros (o churros), marmellate organiche, empanadas, cibo affumicato di ogni sorta, fiori che non guastano mai e produttori, spesso micro, della porta accanto.

Pur_Südtirol

Siamo migrate a nord (Maite + A*) e da qui l’autunno è più autunno. Si inclina la luce, si inclina il ritmo e si passa senza accorgersene dal cono gelato alla tazza di tè. Tutto senza malinconia, soprattutto quando le mattine sono luminose e terse e c’è il tempo di ritrovare il mercato (ritornato anche lui) nella piazza, le dalie, i frutti rossi, gli ultimi pomodori e le prime zucche.
Ma la geografia è relativa, occorre non scordarselo mai: c’è sempre un nord più a nord e un sud più a sud. Così dal Trentino l’Alto Adige fa figura di un altrove prossimo, molto, ma molto più nordico: ordinato, felice e lindo, inarrivabile persino da qui. è un effetto che non si deluisce con gli anni, ma perdura e insiste, anche se sei cresciuta a due passi da lì, anche se arrivarci non è un viaggio, almeno in termini di chilometri.

In questo periodo poi il Südtirol assomiglia a se stesso più che in qualsiasi altra stagione, colori magnifici, temperature a cavallo tra il caldo e il freddo, una disposizione tutta sua a prepararsi all’inverno. Così se fate un salto quassù a nord prendete nota di un piccolo, grande luogo di eccellenze alimentari tutte altoatesine, una specie di Eataly molto in piccolo e molto local.

lanificio 159

Strano posto Pietralata. Ti sembra nello stesso momento di essere altrove e pure anche in uno dei veri centri di Roma. Gli arrosticini e la pizza con i tavolini nel vialetto di ghiaia, il Fish Market con prenotazione carbonara dentro il centro revisioni, un via vai da movida globale con un accento inconfondibile, palazzoni, case basse, fabbriche e il fiume così diverso e così uguale a quello dell’isola Tiberina.
In questo panorama di/o su Roma si è aggiunto anche il Lanificio 159, locale anomalo per la città che è insieme ristorante, luogo di eventi e (sospettiamo) pure discoteca. Il posto è bellissimo e vale da solo la visita, curato accurato coccolato, dai fiori di iperico agli oggetti scompaiati e poetici che sono tutti in vendita. Noi avremmo voluto tutto, in primis lo spazio da vivere finalmente come casa-studio, che qui cominciamo a stare un poco strettini…

tricolore: 3 amiche e un progetto

Marie ci era già stata nella convulsa serata di inaugurazione il 25 novembre. In quella notte di emozioni un fascinoso Massimo Bottura  si era espletato in manicaretti da urlo e pure da sbattersi per terra, e Marie, tenacemente incollata e spiaccicata contro il muro dietro le spalle di quel mago, si era addirittura guadagnata un premio fedeltà dalle sue mani: un gelatino in stecco di foie gras con granella di nocciole e cuore di balsamico. Son cose difficili da dimenticare.
Nel roccambolesco (e nevoso) week end romano, in cui miracolosamente eravamo tutti e tre calicanti riuniti, ci siamo ritornati. Massimo Bottura evidentemente non c’era, ma c’erano invece, anche loro al gran completo, le tre fanciulle che di questo luogo sono mente, braccia e sorrisi: Francesca, Livia e Veronica. E questa volta abbiamo avuto il tempo di chiacchierare, di chiedere, di capire che la loro storia per quanto originale e unica ha più di qualche punto di similitudine con la nostra: il numero 3, l’amicizia e il cibo.

al salone

Il fotografo l’ha messa giù dura, ridotto ad acqua senza nemmeno pane (lui che non ne mangia), ad aspettare foto e provviste, solo soletto, con i lavori per il nuovo vestito del blog sul groppone.
La verità è che tornare dal Salone del Gusto è stato decisamente complicato: cinque ore di ritardo delle ferrovie che naturalmente(!) si scusano per il disagio, una distorsione alla caviglia sinistra e una bronchite in avanzamento. Detta così pare tragica ed in effetti un tantino lo è stata, ma la verità è che forse proprio il tornare da questa esperienza è stato difficile.
Intanto ci è sembrato che il tempo si fosse dilatato, arrivate sabato nel primo pomeriggio siamo ripartite lunedì a “pezzetti” tra la primissima (Marie) e la tarda mattinata (Maite), ma nel mezzo per il tempo di un orologio emotivo era trascorso un mese. E in questo mese si sono mescolate sensazioni, facce, mani, pasta, parole, seadas, olive ascolane, porri lunghissimi, alghe galiziane e ogni, ma proprio ogni bendidio. Provare a mettere in valigia tutto quanto è stata un’impresa disperata, ma ci siamo impegnate comunque e qualche cosa ci pare pure di essere riusciti a riportare indietro…

le recensioni di calycanthus. pedavena a trento

La notizia del week end è che è tornata la neve. Almeno in Trentino, almeno in montagna, ma comunque sufficientemente bassa di quota da guardarla con gli occhi e soprattutto da sentirla nell’aria con la punta del naso arrossata. Di corsa a pescare una giacchetta di lana dall’armadio, e la sciarpa e i calzettoni, ricominciando a pensare che appunto si ricomincia con il freddo, con la lana, con gli strati. Ma l’autunno (o già forse l’inverno?) ha tutto un suo piacere e un suo tepore in cui il Trentino, e il mondo nordico in generale, si avviluppa. Cibo da freddo che scalda da dentro: canederli, gulash suppe, polenta e tosella, strangolapreti e wurstel in ogni sfumatura. Insomma anche l’inverno ha le sue ragioni alimentari, così per “festeggialo” siamo tornati al Pedavena luogo storico, anzi di più, del cibo trentino. Popolare, popolarissimo, tanto cambiato eppure assolutamente immutabile, stesso menù, stessa boiserie, stessa atmosfera, stessa birra che si produce proprio qui.

il bistrot di villa Pamphili

A Villa Pamphili siamo affezionati in maniera particolare, questione di pic nic di compleanno e di vicinanza ambientale, visto che da casa del fotografo ci si arriva comodi comodi con qualche passetto e pure in discesa. Così finisce che nelle ore calme dei giorni romani (in effetti un poco rare, che siamo sempre di corsa di corsa…) Villa Pamphili è il posto dove rifugiarsi e respirare, pascolando in vera libertà di qua e di là dall’Olimpica (per i non romani vale la pena precisare che il parco, grandissimo, è tagliato da una strada, l’Olimpica appunto, surmontata però da un ponte pedonale che permette di viverlo come un posto intero).

Rifugio dunque, battuto palmo a palmo, cespuglio per cespuglio, dal laghetto alla villa, querce, tartarughe, pini romani, serre, vialetti con nomi di donne (c’è pure una Sigrid!), eppure al Bistrot dentro al parco stesso non c’eravamo mai stati. Poi una mattina di calma, con il papà finalmente in gita a Roma, ci siamo concessi il lusso di un caffè, un cappuccino e due tarte tatin per nulla malvagie, tepore dell’ottobre romano tutto incluso.

le recensioni di calycanthus. il probusto!

Ci sono cose che si hanno sotto casa, sotto agli occhi praticamente per una vita senza riuscire a vederle, o forse meglio a guardarle. Poi un giorno si inforcano gli occhiali e si scopre che sono in qualche misura uniche.
Così, ad esempio, della macelleria Giuliani, e pure dei probusti, credo di aver sentito parlare tante e tante volte, ma c’è voluto il partire, il ritornare, questo blog e pure qualche articolo di Davide Paolini sul Sole 24 ore per scoprire che sì, i probusti sono una cosa che c’è solo qui, solo a Rovereto, e ormai solo nella macelleria Giuliani.
Il nome è un po’ buffo, ma non è che la storpiatura italianizzata di wurstel. Ai wurstel del resto i probusti somigliano da vicino, anche se l’impasto ha sue precise (e segretissime) regole nell’uso delle spezie e in particolare nella dosatura dell’aglio. Il budello è assolutamente naturale, dunque si mangia tutto, senza esagerare nella cottura, solo pochi minuti, dice il signor Giuliani, altrimenti si spaccano e addio…

un hugò e qualche anticipazione

A dire la verità non è che sia chiaro se l’accento sulla “o” ci vada o pure no, ma è pur vero che a pronunciarlo si sente che la cadenza porta lì, e poi, questo è certo, fa più esotico. L’Hugò dunque, è un cocktail di ascendenza bolzanina (nel senso che è lì che lo si serve e lo si beve ovunque) a base di prosecco e sambuco, con qualche fogliolina di menta e spesso (ma non nella versione originaria che prevedeva zest di limone) uno spicchio di mela.
Quello che abbiamo fotografato qui è un po’ più meridionale, assemblato al ViaDante (Rovereto) e lì sorseggiato con grande soddisfazione. C’era infatti più di una ragione per brindare, portandosi avanti sugli eventi di queste ore e sulla prossima settimana.
Qualcuno, tramite il tam tam di facebook, ha già fatto in tempo a dargli una sbirciatina sulle pagine Food&Wine di Repubblica/L’espresso dove sono comparsi da qualche ora, ma a questo punto è proprio il caso di dirlo ufficialmente: dal 21 settembre fino al 30 ottobre  alcuni dei “nostri” ritratti alimentari saranno in mostra da Kitchen in via De Amicis 45 a Milano. Tra questi ce n’è pure uno inedito, di ritratto, che “sveleremo” lunedì, per intanto la sottoscritta corre a chiudere una valigetta per il suo  week end altoatesino tra terme e Hugò (…mentre Marie e il fotografo restano a lavorare…).

le recensioni di calycanthus. il gallo

Nel post di lunedì (che a guardarlo da qui sembra un sommario per la settimana) avevamo accennato a un pranzo domenicale un po’ speciale. E qui, conviene dire subito che siamo di parte, spudoratamente e senza vergogna alcuna. Sì, perché Il gallo è uno di quei posti in cui non soltanto torniamo più volentieri, ma in cui di più e meglio ci sentiamo accolti e coccolati. E con questo non vogliamo resuscitare una formula retorica trita e ritrita che si può cucire, scucire e adattare sulla spallina di qualunque luogo della ristorazione, o quasi.
No, è che al Gallo, Barbara, che lo gestisce assieme a Marzio, sorride, colleziona alzatine (esattamente come la sottoscritta) e mostra con orgoglio cimeli da biblioteca gastronomica. Le tavole sono apparecchiate di fresco, il menù dispone di quello che la terra (la loro) produce e così nel flan di pane si riconoscono lungo i mesi tutte le stagioni, dalle poppole ai radicchi passando per l’abbondanza della malva. Le conserve sono le loro, loro le pere nei cartocci, il pane è impastato con le molche, le zucchine messe via a primavera, i fichi (quando ci sono) sono impacchettati con cura tra lardo e rosmarino, i muffin (di Francesca) lontani anni luce dal preparato.

Insomma Il gallo ci piace per tante ragioni che speriamo si leggano almeno un poco nelle immagini qui sotto. Noi per parte nostra domenica siamo stati benissimo, complice il cielo terso, la compagnia gradevolissima, l’apparecchiatura all’aperto, tanto che tra coccole e chiacchiere il fotografo ha rischiato di perdere il suo treno.

i krapfen e il dirigibile

Per ricordarsi di questo dirigibile bisogna:
essere romani;
essere di una generazione… insomma non proprio dell’ultima;
essere usciti qualche sera con gli amici in direzione di Ostia;
non essere allergico a dolci e zucchero.

Chi colleziona tutti questi requisiti è probabile che già abbia assagiato i krapfen della pasticceria di Dino, proprio sulla piazza di Ostia, prma della Rotonda… qualche anno fa.
L’eredità di Dino è ora tutta nella memoria di Laura e Cristina, che rispolverano la ricetta (segretissima) dei krapfen ogni tot anni (l’evento era in attesa da parecchio tempo questa volta) a beneficio dei loro ghiotti invitati, che accorrono da ogni dove per addentare con bramosia succulenti e cremosi pezzi di memoria.

fiocco di neve

Sudarcela ce la siamo sudata! perché per andare a trovare la signora Scottini, che con il marito Remo produce formaggi caprini di qualità eccelsa, ci siamo impegnati in più tappe. La prima volta, la mattina di buon’ora ci siamo andati a ranghi allargati (tre calycanti più il quarto moschettiere), ma c’eravamo dimenticati la macchina fotografica, così uno è risceso a valle e gli altri hanno proseguito a piedi intonando cori di montagna.
La giornata però doveva essere di quelle complicate, perché arrivati in cima la signora Scottini non c’era e le caprette le sentivamo da lontano. Fortuna che sul cancello c’era il numero di cellulare (!), così l’appuntamento è stato preso in modo più certo, e nel pomeriggio il fotografo e l’architetto sono ripartiti in missione per dire ciao alle caprette e per riportare il formaggio e la ricotta per il pic nic.
Come sia andata esattamente-esattamente non si sa, sembra che abbiano assaggiato ogni cosa, avvistato il caprone, visitato ogni anfratto della stalla atterrando anche sulla cacca di almeno una capra… ma fiocco di neve? fiocco di neve c’era?

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