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Il calendario 2020 dei corsi e le pesche di vigna

Che cosa ci sia dietro ad una fotografia, e in particolare dietro ad una fotografia di cibo, è spesso un fatto così intricato che guardarci dentro dà un poco di vertigine.

A me ne dà una un poco particolare, stratificata pure quella, perché da una parte mi rimanda alla mia vita precedente quella in cui di fotografia (non di cibo!) mi occupavo in università e dall’altra mi porta a un presente molto presente in cui la quotidianità del mio cibo, del mio lavoro e della mia famiglia si mescolano e si confondono ormai come un’abitudine.

Prendiamo la foto qui sopra, ad esempio. La casa di Barcellona in questi giorni profuma di pesche di vigna, le ultime ad arrivare, e forse per questo quelle che amo di più. Sono dolci ma non melense, con una consistenza soda che le rende perfette per farne barattoli di conserve sciroppose. E infatti la dispensa comincia a traboccare.
Tutti gli anni però il problema è lo stesso: qual è la concentrazione giusta dello sciroppo perché le conservi, ma non le inzuppi, preservandole sode e con una punta asprigna?

Mentre io pensavo alla mia equazione con i fogli di appunti davanti, il Fotografo cercava la quadra per incasellare sul calendario tutto il suo lavoro degli ultimi mesi.

Confinamento, post confinamento, estate e rientro a studiare teorie e tecniche per i corsi di fotografia di cibo a distanza. Ha registrato video (e li ha fatti registrare pure a me!), ha incrociato telecamere e fotocamere, smontato regole dei terzi, sezioni auree, schemi a serpente, a triangolo e a diagonali incrociate. Ha disegnato schemi di luci, di composizione e di post-produzione, ha cercato esempi nella rete, su Instagram, su Tiktok, nei libri e persino nella mia collezione di riviste di cucina in cinque lingue e molti lustri. Un lavorone!

Ecco perché nell’immagine io sono circondata da appunti e pesche di vigna, ma con la fotocamera al collo. è la macchina dismessa dal Fotografo, quella che arriva a me molto amata e molto usata. Ma io, che in questi ultimi anni mi sono abituata a fare tutto (o quasi) con il cellulare, dovrò provare ad imparare di nuovo e non vedo l’ora, perché è questo il tempo giusto per i buoni propositi, quest’anno più che mai.

Se dunque avete voglia di imparare, di affinare o di ripassare qui trovate tutto il calendario fino alla fine di questo anno un tantino particolare: http://mauriziomaurizifotografia.com/workshop/calendario-20-21/

Ci sono corsi tematici (sulla luce, sulla composizione e sul ritocco), ma c’è anche un corso che prende per mano a partire dalle basi e poi, passo passo, attraverso tutte le fasi e i problemi, una vera scuola insomma. Tenete conto che i posti sono limitatissimi (e i primi sono già andati!), proprio per poter seguire i passi di ognuno, se dunque siete interessati (o conoscete qualcuno che potrebbe esserlo) scriveteci presto!

Per le pesche di vigna invece fate così.
Sceglietele sode e senza difetti, lavatele e non sbucciatele, tuffatele un minuto o anche meno in una pentola di acqua bollente. Prelevatele con la schiumarola e sbucciatele con il pelapatate. Eliminate il nocciolo cercando di mantenere le due metà intere (è la faccenda più noiosa), sistematele in barattoli sterilizzati e asciutti mettendole sempre la parte piatta sotto e la gobba sopra, premete leggermente in modo che si accomodino per bene. Coprite con uno sciroppo di zucchero bollente (io uso in genere 400 g di zucchero per litro di acqua e aggiungo zenzero in pezzi e il succo di mezzo limone, poi faccio sobbollire per una decina di minuti finché non comincia ad essere appena viscoso). Chiudete subito i barattoli avvitando forte. Sistemateli in una pentola piena di acqua con uno strofinaccio a separarli per evitare che possano rompersi. fate bollire per 10 minuti, prelevateli con cautela e lasciateli raffreddare a testa in giù.

Burro chiarificato home made

L’autoproduzione è una delle conseguenze più dirette della clausura, almeno in questa cucina.

A parte la nascita di Justino, il nosto lievito madre con cui stiamo ancora prendendo le misure, la tentazione è stata forte per mettere in cantiere non solo ciò che richiedeva il tempo che prima non avevamo, ma anche tutto ciò che ci evitasse di uscire di casa.

Così dopo secoli di tentennamenti, che a guardarsi indietro non si capisce perché, ci siamo lanciati un pomeriggio qualsiasi a fare in casa il burro chiarificato.

La faccenda in sè è semplicissima, ma nasconde parecchie ambiguità. Il burro chiarificato è semplicemente il burro normale privato della sua parte acquosa, ma anche delle proteine della caseina. Puro grasso dunque, senza acqua e senza proteina.

La cosa può spaventare ma in realtà le proprietà e i vantaggi sono molti. Il punto di fumo è decisamente più alto, dunque può essere usato per friggere ed è inoltre parente stretto del ghee (da cui differisce per il metodo di preparazione e per il gusto) venerato nella medicina ayurvedica.

Qui ci siamo decisi perché era indispensabile per la preparazione di un dolce classico che ancora non abbiamo messo in cantiere (qualcuno indovina quale?) e il costo nel supermercato bio che ci consegna a casa decisamente scoraggiante.

Il Fotografo poi che ha suoi rituali complessi e molto alternativi in fatto di alimentazione si è precipitato a scrivere ghee sull’etichetta. Forse così lo mangia pure lui ;)

Come è andata?
Bene, anche se qualche dubbio ci è rimasto.

Come si fa?
ecco appunto, una cosa è la teoria, un’altra la pratica. Seguendo varie istruzioni on line, abbiamo messo il nostro panetto di burro tagliato in cubetti regolari in un pantolina e cotto lentamente a bagnomaria. Si è formata quasi subito un poco di schiumetta, ma non tanta, che abbiamo eliminato con una schiumarola stretta. Il resto è evaporata lentamente. Sul fondo invece si è andata condensando la parte proteica, un composto filamentoso e bianco che si accumulava piano piano. Abbiamo spento e travasato in almeno tre diversi passaggi: colino a maglie strettissime e poi due passaggi da garza doppia. Ora riposa in frigo, ma assicurano che potrebbe pure stare fuori.

Pesto di salvia

Che di pesti non ce ne siano mai abbastanza, siamo noi la prova provata. Sui pesti ci abbiamo fatto un intero libro, eppure qualcosa di nuovo scappa fuori sempre, anche e soprattutto in quarantena.

Nella spesa di verdure della settimana scorsa era entrato anche un volitivo mazzetto di salvia che qui non è roba semplice da trovare già normalmente, figurati adesso. Serviva per una ricetta della nostra rubrica sul sito dell’Istituto di Valorizzazione dei Salumi Italiani, in calendario a breve.

Fatta la ricetta rimanevano parecchie foglie che in un’epoca diversa da questa avrebbero finito per languire sul fondo del cassetto delle vedrure nel frigo, ma qui, cercando di uscire il meno possibile, di tutto quello che entra facciamo un uso assolutamente minuzioso.

Dunque abbiamo fritto le foglie più grandi e più belle, in una pastella semplice che ci ha insegnato Marie a Castellina tanti anni fa e il resto è diventato pesto, in versione vegana che così se lo pappa anche il Fotografo con tagliatelle di farro integrali, home made, ça va sans dire…

La ricetta


20 g circa di foglie di salvia fresche
60 g di noci
20 g di nocciole tostate
1/2 spicchio di aglio
un pezzetto di scorza di limone non trattato (senza la parte bianca)
mezzo cucchiaino di succo di limone
sale o acidulato di Umeboshi
olio extravergine di oliva

Tritate le foglie di salvia (lavate e perfettamente asciugate) con le noci e le nocciole, unite lo spicchio di aglio, la scorza e il succo di limone. Aggiungete in fine l’olio extravergine di oliva e regolate con sale (o umeboshi).

La dispensa

Sono giorni così, in cui la casa è diventata il centro delle nostre vite,

in cui tocchiamo il tempo da vicino, in cui la misura dei nostri passi sono le mattonelle della cucina o le doghe del parquet. Uscire per il mondo è un esercizio complicato e pericoloso e lo si limita alle cose essenziali.

Che poi, a guardar bene, le cose essenziali fanno rima corta con quelle alimentari: rifornire la dispensa, organizzarla, mettere insieme il pranzo con la cena, ma pure la colazione e la merenda, come sempre e più di sempre.

Nelle scorse settimane mentre in Italia la situazione si faceva via via più grave e più chiara, qui a Barcellona (e forse potrei dire ugualmente nel resto del mondo) la vita andava avanti normalmente, senza nessuna intenzione di potere, o volere giocare di anticipo. Come se non si potesse imparare da quel che succede al nostro vicino, ma anzi lo si stesse a guardare da lontano alternando la pietà, lo spavento e la condanna. Un poco come in Italia abbiamo guardato noi alla Cina, che però è, o almeno sembra, tanto e tanto più lontana.

E noi, come tanti, ci siamo trovati un poco sospesi tra il dramma in corso e quello incombente, chiedendoci che potevamo fare e come organizzarci. Nella vita schizzofrenica a cavallo dello spazio tra qui e lì, ma anche forse a cavallo del tempo, tra oggi in Italia e tra una settimana a Barcellona, abbiamo avuto il tempo di organizzare la dispensa.

Non siamo corsi al supermercato, non abbiamo comprato 20 pacchi di cartaigienica, ma ci siamo chiesti cosa comprare con razionalità, prevedendo di uscire il meno possibile. Abbiamo fatto un poco a naso, sorpresi che dovessimo farlo per davvero, come avevano fatto le nonne durante la guerra, e mai noi.


Strada facendo abbiamo scoperto che alcune cose, erano più o meno quelle di sempre. Altre, anche consuete, hanno un sapore differente.

  • Per prima cosa è toccato svuotare tutta la dispensa. Barattoli refrattari dimenticati sul fondo dell’ultimo ripiano, doppioni insensati, spezie avvizite, incrongruenze tra contenente e contenuto, come quando conservi 20 g di zucchero di canna in un barattolo da 1 litro. Insomma ho fatto ordine. Come a Pasqua, o peggio come a settembre, quando rientro dalle vacanze e mi prendono tre giorni di stato compulsivo, che per fortuna passano veloci.
  • Poi ho lavato tutto. Nel frattempo il Fotografo boffonchiava che dovevamo svuotare il congelatore.
  • Nei giorni successivi, senza fretta, siamo andati a comprare le cose a lunga, lunghissima conservazione: lenticchie (quelle nere), ceci, riso nero e riso rosso, avena in fiocchi, cacao in polvere, zucchero, farine. Ci riforniamo in un negozio che è una meraviglia, proprio a ridosso del mercato del Born che ora è un centro culturale ma che è stato fino a pochi decenni fa il mercato all’ingrosso. Ci si trova tutto (o quasi) quel che si può conservare, tutto quello che si immagina stoccabile in sacchi, e proveniente a volte da molto vicino, a volte da molto lontano. La cesta della spesa sulla via del ritorno pesava parecchio.
  • Al banco delle verdure del mercato abbiamo comprato un poco più del solito, ed ogni volta che abbiamo cucinato abbiamo messo via un paio porzioni, che ci servano per giorni di poca voglia. C’erano già le fragole che qui, non so perché, arrivano prima: le abbiamo mangiate certo, ma una parte è finita congelata, così semplicemente lavata e asciugata.
  • Al banco del pesce alla Boqueria giovedì mattina non c’era nessuno. Mai ho visto il mercato così vuoto, mancavano i turisti. Ma venerdì, quando le scuole avevano già chiuso, si è riempito di chi ormai non lo frequentava più, dels veins, de los vecinos, dei “vicini”, cioè di chi abita il quartiere. Hanno fatto scorta, hanno ordinato per telefono, hanno congelato, riappropiandosi di un luogo e di un’abitudine perduta nei giorni normali. Se ne accorta La Vanguardia che ci ha scritto sopra un articolo così vivido che mi pareva di vederle due signore, mamma e figlia, con la cesta della spesa sottobraccio. La mamma, ricordandosi della fame del dopoguerra, continua a ricordare che devono comprare baccalà sottosale, che quello dura un’eternità, che si conserva anche se va via la luce…. e la figlia la interrompe e la rimboca, che no, mamma cosa dici?
  • Nel negozio pachistano sottocasa, specializzato in prodotti italiani, abbiamo comprato la pasta. Ha aperto da poco più di un anno, seguendo il fiuto imprenditoriale di altri suoi connazionali in città che hanno capito che la comunità italiana non è solo molto presente a Barcellona, ma tenacemente affezionata al suo cibo e ai suoi prodotti. è minuscolo, ma ci si trova di tutto, e da pochissimo ha aperto una seconda stanza, sgabuzzino come la prima, tutta foderata di pasta. Ovviamente c’erano solo italiani, con le braccia colme di pasta, ma pure di biscotti a regressione infantile e merendine che non vedevo dalla fine degli anni Novanta. Ognuno sente la nostalgia della mamma a modo suo già normalmente, figurati in quarantena.

Domani, dopo tre giorni tornerò al mercato. Ci andrò da sola, senza bere il mio solito caffè lungo la strada e probabilmente un poco di fretta, sembra pure che pioverà. Devo ricordarmi di comprare le patate, che ho dimenticato giovedì, le cipolle di Figueres che sono finite, e magari anche un poco di baccalà sottosale che non si sa mai…

La ricetta

Di granola esistono versioni infinite e anche noi, negli anni, ne abbiamo collezionate parecchie. Questa semplicissima piace molto ad Anna, i mirtilli rossi la rendono un poco sorprendente, ma variate come più vi piace gli ingredienti e il risultato sarà sempre irresistibile.
La ricetta è presa dal nostro libro Dolci calendari dell’Avvento e dimostra che la granola va bene per qualsiasi stagione.


per 2 barattoli medi:
300 g di avena a fiocchi grandi
75 g di nocciole o noci
75 g di mandorle
70 g di semi di zucca
60 g di uvetta
60 g di mirtilli rossi disidratati (o anche di zenzero disidratato, o di albicocche…)
50 g di semi di girasole
70 g di zucchero di canna
un pizzico di sale

180 ml di tè nero
80 g di miele
60 g di olio di cocco

Accendete il forno a 160°C e, se possibile, in funzione ventilato.
Mescolate l’avena con le mandorle, le noci (o nocciole), i semi di zucca e di girasole. Aggiungete un pizzico di sale e, se la volete dolce, 70 g di zucchero di canna. Mescolate bene.
In un pentolino fate sobbollire leggermente il tè con il miele e olio, versate quindi il composto ben caldo sul mix di avena e mescolate con un grande cucchiaio di legno per fare in modo che si impregni in modo uniforme.
Sistemate il composto su due teglie rivestite di materiale antiaderente (carta da forno o tappetini) e tostate la granola per circa 20-25 minuti mescolandola regolamente per fare in modo che si asciughi e si tost i modo uniforme. A fine cottura aggiungete le uvette e i mirtilli rossi. Mescolate bene, infornate per altri 5 minuti a 120°C e spegnete. Lasciate raffreddare a granola in forno quindi conservatela in barattoli ermetici.

Nota: in questi giorni per noi funziona bene a colazione, ma pure a merenda, oppure quando si passa davanti alla dispensa in cerca di una piccola carezza.

Fatto a casa.

Fermarsi e accellerare, correre e pazientare. Queste pagine hanno diversi anni alle spalle, che hanno coinciso con i tempi lunghi e stretti della mia (della nostra…) vita.

Un farsi quotidiano che è quello della cucina, ma anche un tempo da guardare all’indietro, fatto di mia madre che se ne è andata, di Anna che è arrivata, di giorni facili e di ore pesanti, di libri, di progetti arrivati in fondo e di altri senza porto.

E molto spesso, in questi ultimi anni soprattutto, queste pagine sono rimaste ad aspettare: non c’era tempo, e poi dopo sembrava che non ci fosse un senso. Tutto ha accellerato, il tempo si è accorciato e si accorciato anche il tempo della cucina, quello della scrittura, quello della lettura condivisa.

Ci sono parole tecniche per dirlo, per dire che il tempo dei blog come diari è tramontato, che i social ci hanno messi tutti su una giostra che si avvita, che ci è mancato il tempo, che tutto si è ridotto ad un sorriso.


E noi, in fondo, abbiamo avuto i nostri libri in cui essere larghi, in cui accomodarci comodi come su una poltrona che scegli perché ti assomiglia, in cui puoi stendere le gambe, ma pure accucciarti, o salirle in groppa.

Ma il blog? Queste pagine sono rimaste ad aspettare ed io, con la convinzione di certi amanti presuntosi, mi son detta che non se la prendeva. Ma infondo più che pensare a lui, ho pensato sempre a me stessa sapendo che queste pagine sono la parte intima a cui tornare. Sempre, come si torna a casa.

Così oggi, proprio oggi ricominciamo da qui. Da questa cucina e da questa casa.

Perché le cose sono anche semplici da fare, ma tocca fermarsi e respirare come dico a volte ad Anna troppo concitata nel gioco o nell’emozione, che sia la paura o la voglia di fare indigestione.
La parole dei poeti lo dicono così bene! grazie papà che mi ci hai fatto inciamare proprio nell’ora giusta.

Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.

Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
(…)

Adesso siamo a casa.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

Nove marzo duemilaventi, Mariangela Gualtieri

La ricetta

Di ragù vegetali ne ho cucinati tanti. Ma tanti per davvero. Non tanto per un’avversione alla carne, ma per pura e semplice praticità. Era un cavallo di battaglia della nonna, lo è stato di mia madre ed ha i suoi trucchi; ma gli anni dell’Università me ne hanno insegnato anche versioni un poco facilitate che avevano (ed hanno) il grande vantaggio di far fuori i resti del cassetto delle verdure, e di allenare una pazienza un poco facile. Tagliate le verdure, infatti, la cosa si fa da sola. Basta ridurre il fuoco al minimo, rimestare di tanto in tanto con un lungo cucchiaio di legno e regalargli tutto il tempo che si ha a disposizione, anche a rate. Certe mattine lo mettevo sù, all’ora di colazione, mettevo i libri sul tavolo di cucina e gli studiavo accanto, lo spegnevo per andare a lezione e lo riprendevo ancora un paio d’ore, così perché riducesse ancora un poco e condensasse. Un poco come la materia che studiavo nelle dispense fotocopiate in via di Pantaneto.

Le dosi sono indicative, così come i tempi di esecuzione. Potete variare ma non siate parchi, è un sugo che vuole generosità.
Idealmente, nella versione della nonna, il sugo vorrebbe il vino cotto che lei faceva in casa e che io ormai posso solo (o quasi) ricordare. In mancanza si può sostituire con un bicchiere di vino rosso corposo in cui sciogliere un cucchiaio di zucchero grezzo.


5-6 cipolle dorate
4 carote
il cuore intero di un sedano
1,5 kg (almeno) di passata di ottima qualità
8 cucchiai di olio extravergine di oliva
2 spicchi di aglio (in questa versione ho usato aglio tenero, 3 gambetti)
1 bicchiere di vino rosso
1 cucciaio di zucchero grezzo o di melassa
cannella, choidi di garofano, scorze di limone o di arancia, alloro, peperoncino… (a scelta e a piacere)
sale

Tritate finemente le cipolle. Fate lo stesso con le carote raschiate e con il sedano da cui avrete eliminato le parti più fibrose. In una pentola molto capace fate soffriggere leggermente l’aglio schiacciato e privato del germe assieme agli aromi che preferite, appena diventa biondo potete toglierlo e versare la cipolla, fatela dorare e quindi unite il sedano e la carota. Rimestate per qualche minuto finché le verdure non cambieranno di colore, versate quindi in pomodoro, mescolate bene, abbassate la fiamma al minimo e proseguite la cottura piano piano per lameno 2 o 3 ore. Potete anche interrompere la cottura e riprenderla senza problemi (se però tardate mettete la pentola in frigo). Quando il sugo si sarà ridotto di poco più di un terzo aggiungete il vino con lo zucchero, salate con parsimonia e proseguite la cottura un’altra ora. Alla fine aggiustate di sale.
Potete conservare il sugo in frigo per un paio di giorni in un barattolo ermetico, ma potete anche congelarlo o sterilizzarlo.

pesto siciliano e catalano

La Sicilia e la Catalunya in alcune cose si assomigliano. Non è una vicinanza evidente, una dei quelle cose in cui la parentela si legge allo specchio  rispecchiando gli occhi negli occhi o una sfumatura nel tono dei capelli. Però, a darsi il tempo, si trova come una traccia sottesa, una specie di fume carsico che ogni tanto zampilla in superficie e che per il resto ha trovato la sua forma diversa in ciascuna patria.

come una crema alla gianduia

Il lunedì può essere duro pure a giugno, soprattutto quando il fine settimana è stato denso, il tempo ostinatamente autunnale e il corpo lento. Tocca allora essere indulgenti e coccolarsi alla lettera, anche un poco regressivi spalmando sul pane generose dosi di una crema che ricorda quella crema, quella proprio quella, quella di cui tutti abbiamo fatto indigestioni memorabili fino a completare servizi impressionanti di tazze e bicchieri fiorati da 24.

dip di carote, zenzero e Kombu

Che fate voi dell’alga Kombu? Io personalmente me ne dimentico. Ne abbiamo comprate quantità imprudenti quando sull’onda della rivoluzione salutista del Fotografo ho ceduto a quella vecchia malattia (che credo di portarmi dietro da sempre) che mi spinge compulsivamente verso ogni ingrediente nuovo, esotico o ancora peggio lontano nel tempo (praticamente il massimo del romanticismo).

Poi però l’alga Kombu (come del resto le sue sorelle) è rimasta lì, nello stipetto dell’armadio verde senza trovare una sua collocazione nè nella dispensa nè tanto meno fuori da quella… perché tocca dirlo i primi tentativi con un ingrediente nuovo non sono sempre esiti felici, ben più spesso finiscono per gridarci in voce forte e chiara che la cosa è semplice: se non l’hai usato fino ad ora una ragione ci deve pure essere…

Per fortuna Marie è una testolina rossa e un cuore indomito. A fine novembre ha fatto un viaggio in Bretagna e per qualche giorno si è fermata alla Pointe du Raz, la punta estrema dell’estrema Bretagna, quella che guarda agli Stati Uniti.
Siccome è un’anima romantica si è messa a calcolare che soltanto 5379 km a volo di uccello la separavano da New York e a me pare di vederla, dritta sulla scogliera, avvolta nelle sue sciarpe guardare ad Occidente. E poi proprio lì, in quel luogo mutevole di colori cangianti, di nuvole veloci e di vegtazione brulla si è rifugiata in un piccolo caffè con dentro una piccola libreria, uno scrigno del desiderio che vorresti avere sotto casa. Caldo accogliente, luminoso con una scelta intelligente (!) e curatissima per i libri di cucina, sguardo acceso sulla cucina sana.
Lì, in quell’angolo di finis terrae ha scovalo la nostra nuova bibbia sulla cucina delle alghe. E l’alga Kombu ha finalmente  avuto un senso, toccava solo arrivare alle soglie del Nuovo Mondo e guardare indietro verso Oriente.

 
 

La ricetta (tratta da La cuisine des algues di Xa Milne, ed. Rouergue)
4 o 5 carote
mezza cipolla rossa
4 cm di zenzero fresco
10 cm di alga kombu (fresca o reidrata per 5 minuti in acqua calda se secca)

Salsa di ispirazione giapponese che può accompagnare un pesce bianco, un pesce affumicato, carne fredda oppure spalmata sul pane come abbiamo fatto noi.
Riunire tutti gli ingredienti, tranne la salsa di soya, sale e pepe nel mixer e fare girare fino a quando il tutto non si è sminuzzato. Se la consistenza sembra troppo secca, aggiungere un cucchiaio in più di acqua. A questo punto aggiungete la soya, il sale ed il pepe. Si conserva per qualche giorno in frigo.

 

 

la chutney di katie

Ci sono cose su cui inciampi e ti sembra per caso, ma poi, sempre per caso, queste stesse cose tornano e ritornano sulla tua strada, tra le mani e nei pensieri. Così per noi è stato con Katie (Quinn Davis), scoperta tanto tempo fa saltellando nella rete. Di link in link, o su prezioso suggerimento di qualcuno (ormai è troppo lontano per ricordare…) un giorno abbiamo aperto le pagine scure del suo blog ed è stato come svelare il lato oscuro del cibo.
Cercando di non metterci troppo enfasi (!) diremo il modo di Katie ci ha colpito subito, come l’opposta fascinazione del siderale bianco di Donna Hay: lei composta, abbagliante e distante e Katie invece disordinata, “sporca”, gotica. Il bianco e l’azzurro di qua, il nero e il marrone di là, la garza trasparente dell’una, i lini pesanti e spessi dell’altra, il cibo intatto e il cibo spezzato… tante e tante volte abbiamo raccolto mollichine sulle pagine dell’una e strizzato gli occhi di fronte al bagliore dell’altra, ma la cosa straordinaria è che, al fondo, non serve fare una scelta, dichiarare di voler più bene alla mamma  al papà. Sono stili, modi diversi di comunicare il cibo, di mostrarlo, di metterlo in scena, la cosa veramente divertente è proprio il fatto che siano così marcatamente contrapposti.
Durante le officine calycante ne abbiamo parlato più e più volte, le loro foto ci hanno aiutato a smontare gli aspetti tecnici, a parlare di luce, di scelte compositive, di tonalità e anche di sfondi e forchette, ma soprattutto ci hanno mostrato più di mille raccomandazioni a freddo che è importante individuare uno stile, un modo che sia proprio, in cui sguazzare con piacere e fare prove, ri-prove e tentativi.
Oggi il primo libro di Katie Queen Davis è tradotto e reperibile in italiano (e proprio da Guido Tommasi) e noi ci abbiamo camminato dentro, avanti e indietro, incerti di quale fosse la ricetta giusta per cominciare, alla fine per scelta di stagione e pure per sfida (visto che le barbabietole non sono esattamente il nostro ingrediente più amato) la scelta è caduta su questa chutney che lei in realtà chiama relish. Risultato buono a tal punto che, la più scettica tra noi, ha finito per spalmarla sul pane facendo a meno della carne e del formaggio che avrebbe dovuto accompagnare…

cotognata/cotognate

Nella mia vita la cotognata è stata a lungo un punto fermo: arrivava, rigorosamente in forma, prima di Natale nei pacchi della nonna con limoni, arance, noci, qualche centrino e molta cura e durava fino a primavera. Aveva una consistenza compatta che si intestardiva con i mesi, ancora umida a dicembre a febbraio cristallizava e a marzo, se ancora ne restava, richiedeva di essere ammollata, mescolata ad un impasto, ricoperta di cioccolato, persino intinta nel tè.
Ora che la nonna non c’è più di quella cotognata è rimasto il ricordo, le formine e pure, per fortuna, la ricetta. è quella che sta assieme a tante altre cose sue nel nostro libro di cucina siciliana, ma è anche quella di cui avevamo raccontato in un post a tre mani (anzia a sei) di una vita fa per un concorso di cavoletto.
Da lì in poi ci siamo un po’ astenuti, un po’ per malinconia, un po’ perché sembrava una faccenda epica. Le quantità della nonna erano infatti industriali, la preparazione durava giorni, impiegava tutte le formine ed occupava letteralmente un’intera stanza dove la cotognata doveva riposare prima di essere sformata, sempre solo e rigorosamente dalle dita della nonna (che saggiava il bordo con apprensione “chissà se questa volta sforma bene…” e sformava sempre bene, con quel suo dubbio propiziatorio che ha ripetuto per quarantanni!).
Ma le cotogne sono belle, profumano la casa, la biancheria, segnano l’autunno anche quando non si decide ad arrivare e in più, ovviamente, mi ricordano la nonna. Dunque quest’anno ci siamo rimessi alla cotognata con quantità molto modeste e cambiando la ricetta: la nonna usava anche la buccia, noi abbiamo sbucciato, niente formine, ma un piano da cui ritagliare quadrotti e incartarli come i ricordi del fotografo, ma questa è un’altra storia…

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