La primavera tarda ad arrivare. Ma noi facciamo il tifo, anche se con il maglione di lana grosso che qui a Barcellona dura di solito pochi mesi.
Ma visto che il verde al mercato c’è già tutto lo abbiamo messo in un pesto facile facile e tutto a crudo per non perdersi niente del verde delle vitamine e delle promesse.
300 g di piselli freschi piccoli 400 g di fave fresche piccole 1 avocado il succo di mezzo limone un mazzetto di menta fresca acidulato di umeboshi (facoltativo) olio extravergine di oliva
pistacchi non salati per guarnire (facoltativo)
Con pazienza sbucciate i piselli e conservateli da parte, con ancora maggior pazienza sbucciate le fave e togliete anche la prima pellicina. Se avete a disposizione piselli e fave piccoli limitatevi a questo, se invece fossero un poco più grandi niente paura! immergeteli in acqua bollente salata per 1 minuto quindi prelevateli con la schiumarola e immergeteli subito in acqua fredda con ghiaccio. Sbucciate l’avocado, lavate a sciugate la menta. Versate tutto nel boccale del minipimer e frullate aggiungendo il succo di limone e l’olio a filo fino ad ottenere la giusta consistenza. Regolate di sale, oppure dosate l’acidulato di umeboshi.
Potete completare con granella di pistacchi.
Serve egregiamente per condire la pasta, ma funziona a meraviglia spalmato sul pane, in accompagnamento a riso nero o a quinoa e persino per un pinzimonio rinforzato.
Qui in Catalunya sono una specie di religione gastronomica oltre che un rito collettivo.
Ma oggi la facciamo breve e ricordiamo semplicemente che i calçots sono dei cipolloni allungati che vengono coltivati in una maniera un poco particolare (un poco simile a quello che succede con il radicchio tardivo, ovvero rimboccando continuamente la terra intorno al bulbo) e si raccolgono nelle giornate più fredde dell’anno, in generale da metà gennaio fino ai primi di marzo. Si mangiono praticamente sempre cotti alla brace, serviti in una tegola rovesciata e accompagnati da una salsa simile al romesco (ne riparleremo…) in riunioni in campagna, o attorno a una masia (un casolare fattoria). Mangiandoli è così facile sporcarsi di salsa che spesso si distriuiscono bavaglini giganti e gogliardici per traccannare felici e senza pensieri i calçots intinti nella salsa rossa e branditi con le mani.
Questo in campagna. Ma in città? in città ci arrangiamo come possiamo. I calçots arrivano facilmente, anche se qualche volta non proprio ruspanti, il problema semmai è la brace.
Dunque noi abbiamo deciso di far valere il forno ma per poi arrivare alla zuppa (proprio come predicavamo qualche post fa a proposito della zuppa di papate dolci). La ricetta è facilissima e vale la pena, perché i calçots anche cotti così alla buona hanno un sapore dolce e leggermente vanigliato che caramellizza in modo delizioso. La salsa a base di frutta secca, pomodoro, peperone (la ñora) e aglio valorizza tutto moltissimo.
Per la salsa:
1 ñora (o 1 peperone choricero) 4 pomodori maturi 1 testa di aglio 1 bicchiere di olio extravergine di oliva 150 g di mandorle 1 fetta di pane grigliato o fritto
prezzemolo (facoltativo)
Lasciate la ñora in ammollo in acqua per una notte intera. Il giorno seguente apritela a metà e con un cucchiaino ricavate la polpa. Sistemate la testa di aglio e i pomodori i una teglia e cuoceteli in forno per circa 30 minuti, quindi pelate i pomodori, eliminate il grosso dei semi e ricavate 4-5 spicchi di aglio dalla testa.Sistemate nel mortaio le mandorle, la polpa della ñora e il pane e cominciate a battere fino ad ottenere una pasta granulosa ma omogenea, incorporate quindi i pomodori, l’aglio e l’olio e amalgamate. Per ottenere una consistenza più fina potete triturare tutto con il minipimer.
per la vellutata:
un mazzo di calçots 2 tazze di brodo vegetale 1 daikon (o una patata) già cotto 1 cucchiaino di Kuzu (facoltativo) olio extrvergine di oliva sale e pepe
Pulire sommariamente i calçolts, eliminare le punte e la buccia più esterna, lasciando però ben intatto tutto il resto. Sistemarli in una teglia, irrorare di olio extravergine di oliva e di sale e pepe a sentimento, cuocere in forno caldo fino a che siano teneri. Una volta cotti eliminare le parti più abbrustolite e se vi piace usatele per decorare il piatto finale. Trasferite i calçolts nel frullatore assieme al daikon già cotto (o alla patata) e frullare diluendo poco alla volta con il brodo vegetale (se usate il kuzu, scioglietele in una tazza con un paio di cucchiai di brodo e poi aggiungetelo alla zuppa). Servire calda o tiepida con la salsa.
Per una lunga parte della mia vita l’ho pronunciato alla fracese: aliolì, con l’accento finale sulla ì che gli dà un’aria sbarazzina e tremendamente francese. Colpa dei viaggi in Provenza che mi hanno fatto credere a lungo che fosse una cosa francese, benchè non parigina, ma del midì, anche quello con l’accento sulla i.
Candida e concentrata sull’aglio, l’allioli è patrimonio de los Països catalans di cui è parte storica anche una parte del midì francese tra i PIrenei e il Rossillon. Il problema di questa pronuncia alla francese è che si perde molto della sostanza di questa salsa che andrebbe scritta come all -i- oli, ovvero aglio e olio, niente di più.
Tutto questo per dire che se riuscite a fare un salto in Catalunya quest’estate, o quando sarà possibile, sappiate che la storia dell’allioli è un’avventura lunga e consolidata, anche se con questioni ancora irrisolte e misteriose. Secondo alcuni infatti qui si troverebbe anche la base della maionese in una leggenda un poco romanzata che ha al centro l’isola di Mallorca e la sua capitale Mahón, durante la breve dominazione francese, ma questa è un’altra storia.
La versione tradizionale dell’allioli prevede solo olio e aglio, aglio e olio e solo un grande lavoro di pestello (di legno) dentro al mortaio smaltato, niente altro. Poi come è ovvio ne esistono svariate versioni che accorciano (forse) il lavoro, ma perdono per strada un poco il sapore.
In questi anni di vita a Barcellona credo di aver provato ogni modo, ogni ricetta, ogni trucco che mi sia arrivata all’orecchio. Sulla versione più tradizonale (solo aglio, sale e olio) ho sudato molte camicie e ottenuto una versione accettabile solamente un paio di volte, la cosa dunque continua ad incutermi terrore. Quella che invece prevede uovo e minipimer a immersione semplicemente non mi è riuscita mai, ma ancora ricordo la frustrazione e la rabbia. Perché il probelma dell’allioli, esattamente come per la maionese, è che si può “negare”, impazzire diremmo in italiano, rifiutandosi di crescere in volume ma anche di tenere insieme gli ingredienti. E son guai.
Di tutte queste maniere alla fine tengo ferma quella della nostra amica Maria, che l’ha preparata a casa nostra per un pranzo della domenica ritrovato. Da quel giorno l’ho rifatta già due volte senza sorprese e (quasi) senza fatica. Visca l’allioli i visca la Maria!
La ricetta
uno spicchio di aglio (ma pure di più se vi piace forte) una presa di sale grosso un tuorlo d’uovo a temperatura ambiente olio extravergine di oliva (ma di gusto delicato)
Sistemate il mortaio su di un panno inumidito in modo da avere più presa sul piano di appoggio, oppure sedetevi su di una sedia e appoggiatevelo tra le gambe. come si faceva una volta. Sbucciate l’aglio, eliminate il germe e trituratelo fino direttamente nel mortaio. Aggiungete il sale e cominciate a pestare fino ad ottenere una pasta omogenea e un poco collosa. Unite quindi il tuorlo e cominciate a mescolare con il mortaio con grande delicatezza, formando delle circonferenze sempre nella medesima direzione, quando il turolo sarà incorporato cominciate a versare l’olio a goccia, piano piano e con pazienza, senza mai smettere di mescolare, e sempre nella stessa direzione. Se tutto va bene vedrete che piano piano il composto si gonfierà; continuate fino ad ottenere la quantità di allioli che desiderate.
Era nella cena del mio complenno due sere fa, e in generale non manca praticamente mai quando a tavola siamo più di quattro.
Si fa da solo, con soltanto un poco di premeditazione, quella sufficiente a ricordarti di mettere lo yogurt a scolare la notte prima.
Ed io così ho fatto sempre. Praticamente ogni estate da quando vidi un amico palestinese del mio amore di allora metterlo a scolare nella federa di un cuscino, appesa nella vasca da bagno di un appartamento sotto ai tetti a Venezia. Cose romantiche e un poco bohémien.
Con il tempo abbiamo affinato le tecniche, usato una garza di cotone (al posto della federa) e un colino. Ma il concetto è rimasto lo stesso, fino a quando Marie ha scoperto una versione infinitamente soffice e setosa in un ristorante libanese a Parigi e da allora lo facciamo montato.
La ricetta
1 kg di yogurt greco 1 cucchiaino di sale 2 cucchiaini di za’taar (idealmente, se non lo avete la spezia che preferite) 1/2 bicchiere di olio extravergine di oliva
La sera prima mescolate lo yogurt con il sale, foderate un colino a maglie fini con una garza di cotone e versateci dentro lo yogurt. Annodate la garza per formare un pacchettino e conservate tutto in frigorifero appoggiando il colino su di una ciotola in modo che possa scolare l’acqua. Il giorno dopo si sarà formato il labneh. Toglietelo dalla garza e raccoglietelo in una ciotola con le fruste o con la planetaria cominciate a montarlo a velocità media incorporando l’olio a filo, come fosse una maionese. Condite con le spezie che preferite, sapendo che l’ideale è lo za’taar (una miscela di spezie profumatissima che incude origano, timo e altre cose preziose).
Che di pesti non ce ne siano mai abbastanza, siamo noi la prova provata. Sui pesti ci abbiamo fatto un intero libro, eppure qualcosa di nuovo scappa fuori sempre, anche e soprattutto in quarantena.
Nella spesa di verdure della settimana scorsa era entrato anche un volitivo mazzetto di salvia che qui non è roba semplice da trovare già normalmente, figurati adesso. Serviva per una ricetta della nostra rubrica sul sito dell’Istituto di Valorizzazione dei Salumi Italiani, in calendario a breve.
Fatta la ricetta rimanevano parecchie foglie che in un’epoca diversa da questa avrebbero finito per languire sul fondo del cassetto delle vedrure nel frigo, ma qui, cercando di uscire il meno possibile, di tutto quello che entra facciamo un uso assolutamente minuzioso.
Dunque abbiamo fritto le foglie più grandi e più belle, in una pastella semplice che ci ha insegnato Marie a Castellina tanti anni fa e il resto è diventato pesto, in versione vegana che così se lo pappa anche il Fotografo con tagliatelle di farro integrali, home made, ça va sans dire…
La ricetta
20 g circa di foglie di salvia fresche 60 g di noci 20 g di nocciole tostate 1/2 spicchio di aglio un pezzetto di scorza di limone non trattato (senza la parte bianca) mezzo cucchiaino di succo di limone sale o acidulato di Umeboshi olio extravergine di oliva
Tritate le foglie di salvia (lavate e perfettamente asciugate) con le noci e le nocciole, unite lo spicchio di aglio, la scorza e il succo di limone. Aggiungete in fine l’olio extravergine di oliva e regolate con sale (o umeboshi).
Questa faccenda delle cotogne comincia a diventare una sfida. Per anni le ho credute solo il passo precedente alla cotognata, senza possibilità di alternative, senza un esito diverso se non quella marmellata consistente e compatta che è madre di ogni conserva.
Che fate voi dell’alga Kombu? Io personalmente me ne dimentico. Ne abbiamo comprate quantità imprudenti quando sull’onda della rivoluzione salutista del Fotografo ho ceduto a quella vecchia malattia (che credo di portarmi dietro da sempre) che mi spinge compulsivamente verso ogni ingrediente nuovo, esotico o ancora peggio lontano nel tempo (praticamente il massimo del romanticismo).
Poi però l’alga Kombu (come del resto le sue sorelle) è rimasta lì, nello stipetto dell’armadio verde senza trovare una sua collocazione nè nella dispensa nè tanto meno fuori da quella… perché tocca dirlo i primi tentativi con un ingrediente nuovo non sono sempre esiti felici, ben più spesso finiscono per gridarci in voce forte e chiara che la cosa è semplice: se non l’hai usato fino ad ora una ragione ci deve pure essere…
Per fortuna Marie è una testolina rossa e un cuore indomito. A fine novembre ha fatto un viaggio in Bretagna e per qualche giorno si è fermata alla Pointe du Raz, la punta estrema dell’estrema Bretagna, quella che guarda agli Stati Uniti.
Siccome è un’anima romantica si è messa a calcolare che soltanto 5379 km a volo di uccello la separavano da New York e a me pare di vederla, dritta sulla scogliera, avvolta nelle sue sciarpe guardare ad Occidente. E poi proprio lì, in quel luogo mutevole di colori cangianti, di nuvole veloci e di vegtazione brulla si è rifugiata in un piccolo caffè con dentro una piccola libreria, uno scrigno del desiderio che vorresti avere sotto casa. Caldo accogliente, luminoso con una scelta intelligente (!) e curatissima per i libri di cucina, sguardo acceso sulla cucina sana.
Lì, in quell’angolo di finis terrae ha scovalo la nostra nuova bibbia sulla cucina delle alghe. E l’alga Kombu ha finalmente avuto un senso, toccava solo arrivare alle soglie del Nuovo Mondo e guardare indietro verso Oriente.
La ricetta (tratta da La cuisine des algues di Xa Milne, ed. Rouergue)
4 o 5 carote
mezza cipolla rossa
4 cm di zenzero fresco
10 cm di alga kombu (fresca o reidrata per 5 minuti in acqua calda se secca)
Salsa di ispirazione giapponese che può accompagnare un pesce bianco, un pesce affumicato, carne fredda oppure spalmata sul pane come abbiamo fatto noi.
Riunire tutti gli ingredienti, tranne la salsa di soya, sale e pepe nel mixer e fare girare fino a quando il tutto non si è sminuzzato. Se la consistenza sembra troppo secca, aggiungere un cucchiaio in più di acqua. A questo punto aggiungete la soya, il sale ed il pepe. Si conserva per qualche giorno in frigo.
A suo modo è un classico, ma da queste parti ha tardato ad arrivare. Colpa della cattiva fama delle rape rosse e colpa del tempo colpevolmente lungo che abbiamo impiegato ad emendarle dalle loro presunte colpe. Roba presitorica, risalente più o meno ai tempi della mensa della scuola elementare, ma è pur vero che sono quelle macchie lì (l’idea infantile del “No, non mi piace!”) le più dure da cancellare e la barbabietola, non c’è che dire, macchia assai.
Che differenza passa tra il babaganoush e il caviar d’aubergines? E cosa resta quando il frullatore resta e si perde la tahina?
Questioni oziosette certo, ma fino a un certo punto, che hanno a che fare con la consistenza, gli strumenti e sì pure gli ingredienti.
Quando un secolo fa (era il 2008, gloups!) pubblicavamo la ricetta di quella specie di mousse che compariva spessissimo sulla tavola ancora studentesca (!), con invitati sempre imprecisi ma in compenso costantemente affamati, era il vissuto francese. L’avevamo “imparata” a Parigi e da lì in poi propinata a go go. Si procedeva (e si procede) spediti: melanzane in forno e poi mixer (robotino da cucina insomma) ma anche la forchetta e un po’ di lavoro di polso in mancanza (frequente) di strumenti, poi lo yogurt e l’aceto.
L’ascendenza però, lo sapevamo già allora, era mediterranea, libanese in particolare ma mediorientale in generale, e negli anni questo mezé ha trovato nel nostro lessico di cucina il suo nome da mille e una notte, babaganoush appunto. Non che le due creme siano esattamente la stessa cosa: una vuole la tahina, l’altra lo yogurt, una il limone l’altra l’aceto, per non parlare della consistenza più granulosa per il caviar, più fina per il baba. Ma è anche vero che in funzione della dispensa le due scuole si sono spesso mischiate, usando lo yogurt al posto della tahina (come del resto già predicato per l’hummus), ma prediligendo il limone e l’uso del frullatore….
Abbiamo passato il cuore dell’estate in un giardino di limoni in Sicilia che di nome però fa Cerzazza, vale a dire qualcosa come “querciaccia”. La quercia non c’è più, in compenso c’è un grade albero di gelsi neri, un ippocastano che ha l’età di chi scrive, un mare screziato di foglie di limone e qualche anomalia. Negli anni, e con parsimonia, sono infatti arrivate piante più o meno esotiche che si sono adattate benissimo: il kiwi per primo a fare ombra, due avocadi dai semi della Martinica, un mango che quest’anno finalmente si è deciso a fare i frutti e ultimo arrivato a ricordare chi non c’è più un bergamotto.
Può sembrare a prima vista una pianta meno esotica delle altre, ma certe distanze non sono solamente un fatto di chilometri, il bergamotto infatti cresce solo e solamente in Calabria, in Sicilia è un’anomalia. Spesso chi si sta difronte si guarda in cagnesco o perlomeno con radicata diffidenza: a tal punto che del bergamotto in Sicilia non si sa quasi niente, fino ad immaginarlo solo profumo, impossibile da mangiare. Ma il nostro bergamotto è cresciuto e l’albero quest’anno è carico di frutti, così rete alla mano si scopre che si mangia, si spreme, si tratta in tutto e per tutto come un limone. Il profumo però è una cosa tutta a sè, che non somiglia a niente se non a se stesso, vien fuori tutto o quasi dalla buccia che è molto molto più oleosa di quella del limone.
Non sapendo da che parte cominciare, abbiamo cominciato dalle basi (anche per via di un progetto di cui riparleremo…) ed abbiamo variato una maionese classica con il bergamotto al posto del limone e la buccia di rinforzo. Se vi capita sotto mano questo frutto da profumeria, non esitate.
Siamo nella settimana del nostro compleanno (!) e siamo sparpagliati nuovamente tra i monti, Parigi e Roma; il computer (quello mobile che segue il grosso dei lavori di aggiornamento) è definitivamente oscurato e una certa pancia in crescita imbarazzante rende difficile allacciarsi le scarpe ma anche aprire lo sportello del forno… insomma cucina a balzi e saltelli e desiderio di essere semplici, semplici. Così, complice anche un assiduo visitatore che si è spulciato minuziosamente l’indice di queste pagine abbiamo scoperto che se abbiamo postato hummus di cicerchie, di piselli, di lupini, di fagioli e di carciofi la versione originale, quella che in questi anni, prima e dopo il blog, abbiamo cucinato miliardi di volte per cene a numero imprecisato, feste, pic nic e anche pranzi solitari semplicemente non c’era. Eccola dunque, con dosì molto, molto ad occhio, come succede sempre con le cose che si conoscono troppo bene.
è tempo di valigie. Si preparano liste, si riempiono borse, borsoni, e borsette e tra partenze e pure già qualche arrivo la cucina langue. Poi per fortuna, visto che di smettere di mangiare non se ne parla, le amiche (e il mercato!) vengono in soccorso…
Ci siamo, pioviscola pure a Roma. Non è questione di ombrelli aperti e di freddi siderali, ma davvero ci siamo, soprattutto che, nel mio personale microclima in movimento, muovo appunto verso nord ed in Trentino è prevista, per questo week end, pure la prima neve, (argh..).
Nella valigia che viaggia vuota per riempirsi soprattutto di lana nel viaggio di ritorno (quello ostinato e contrario) ho cacciato un po’ di corsa anche un barattolo di sugo, in cui stanno condensati gli ultimi pomodori, le ultime cipolle giarratane, l’ultimo profumo del giardino, l’ultimo scampolo di estate, l’ultima stilla di sud, perché certo tutto è relativo, ma Roma sta più a sud di Rovereto.
Che cosa può mai contenere una valigia in viaggio lungo le rotaie da nord a sud, dalle Alpi al Tevere passando per il Reno (inteso però come quello bolognese)? vestiti, sì certo, scarpe, scialletti, le prime calze, una quantita imbarazzante di borsine di stoffa, macchina fotografica, vari caricabatterie, Le metamorfosi di Ovidio, I misteri del Ragno, il Viaggio in paradiso, il portatile, 5 o 6 mazzi di chiavi e 2 barattoli di ketchup.