Su questo blog e lungo i suoi anni si è parlato poco, per non dire niente, di vino. Ce ne manca la competenza, ce ne manca forse anche il coraggio, ma è pur vero che quello del vino è un mondo che ci vive accanto. Il vino ci piace, accompagna il nostro cibo, la nostra cucina, la nostra tavola era dunque ora che facesse capolino anche tra le pagine di questo diario.
Le parole per dirlo però le abbiamo affidate a Luca, che il vino lo ama e che del vino ama parlare (Marie dice pure troppo a lungo…); il suo sguardo in soggettiva si accorda perfettamente con il nostro.

Ebbene si, sono andato a trovare i Calycanthi in Sicilia e (finalmente!) sono riuscito a fare un giro per le cantine dell’Etna.

Conoscevo già, per averne bevute le bottiglie, qualche azienda più o meno grossa o rinomata: Benanti, Gambino, Tenuta delle Terre Nere, Passopisciaro e forse qualche altra che adesso scordo.
Però da qualche tempo, per curiosità mia personalissima (e traviato da alcuni personaggi di cui magari parleremo un’altra volta), le mie peregrinazioni in enoteca e quando capita nelle cantine tende ad orientarsi verso un certo tipo di aziende. In generale mi attraggono quelle di dimensioni piccole, quelle che immagino condotte personalmente dal viticoltore e, sempre in generale, quelle che vinificano in maniera cosidetta naturale.
Che poi magari le tre cose si riuniscono in una.
Capisco che questo non abbia un significato universalmente oggettivo né che in questo modo si incontri sempre il vino buono, però in linea di massima per me è così.

Prima di raccontarvi però di questa giornata e in particolare di una azienda che abbiamo visitato forse sarà il caso di fare un paio di premesse.

La prima, quella sulla disputa naturale vs convenzionale, in realtà la salto direttamente, tanto se ne legge dappertutto e da parte di persone ben più provvedute di me. Di mio sul vino naturale dico solo che ad un paio di anni dai primi incontri più lo assaggio e più mi piace e mi sembra facile da bere. Certo bisogna curiosare un po’, berne un (bel) po’, imparare a fare certe distinzioni e, come per tante cose, definire un proprio gusto.
Semmai vedo con terrore (questo è il mio lato snob) che sta diventando un fenomeno sempre più di moda e questo renderà più difficile discernere bene.
A proposito, la seconda premessa. Il vino dell’Etna va parecchio di moda anche lui.
A me soprattutto il rosso piace: mi sembra un vino del sud paradossalmete un po’ nordico, ma al di là della sua bontà se ne parla tanto (d’altronde lo stiamo facendo anche noi…) e in termini quasi mitologici e anche i prezzi si comportano di conseguenza…

Comunque, la giornata.
Io e Marie abbiamo preso un paio di appuntamenti per degustazioni la mattina e una visita più articolata da fare nel pomeriggio. Siamo nella settimana dopo ferragosto ma quest’anno siamo stati evidentemente più fortunati di quello passato.
Partiamo da casa di Maite,  sul lato orientale della montagna, quello davanti al mare e all’altezza di Fiumefreddo prendiamo la statale che si chiama “dell’Etna e delle Madonie”, che già detta così mi immagino questa strada lunga lunga che si inoltra nella Sicilia più profonda… Infatti il mare scompare subito, si sale e comincia la campagna del versante settentrionale.
Noi dobbiamo andare a Passopisciaro nella cantina di Graci che mi ha dato alcune sommarie indicazioni al telefono che non ci impediscono di perderci un po’ prima di trovare una grande casa isolata, rigorosamente senza alcuna insegna che indichi che li c’è una cantina. Sarà che siamo abituati alla Toscana dove tutto è ultrasegnalato, ma ci guardiamo intorno tra lo smarrito e il perplesso.
Comunque è li e dopo un po’ di girovagare sull’aia deserta in cerca di qualche segno premonitore Alberto Graci si affaccia dalla porta della cantina e ci invita ad entrare. Dentro lo spazio è enorme e fresco e ci sono cinque o sei persone che stanno già assaggiando.
Mi accorgo quasi subito che sul tavolo ci sono anche le bottiglie di un altro produttore, anzi proprio di Russo, l’altro che volevo visitare stamattina e che mi stupisco di trovare li. La cosa è già di per sè indicativa: non è facile infatti trovare un produttore che ospiti in una degustazione con i clienti un suo collega che è inevitabilmente anche un suo diretto concorrente!
I due (Alberto Graci e Giuseppe Russo) sono evidentemente amici e la cosa si spiega anche così, ma è comunque un indizio piacevole che poi approfondisco con qualche chiacchera.
Sempre prendendo a paragone la Toscana che conosco, la sensazione è che qui i vignaioli facciano più gruppo, almeno questi che sono giovani, parlano con rispetto gli uni degli altri e sembrerebbero scambiarsi visite, bevute e opinioni. Forse è per via del territorio così caratterizzato e delimitato, forse è perché queste aziende sono piccole o forse perché loro sono giovani che hanno deciso di mettersi a fare il vino in prima persona, non so… in ogni caso mi sembra una bella cosa.
Assaggiamo di Graci l’Etna rosso e anche il “quota 600” (che è una selezione) e di Russo il suo Etna rosso base e un paio di cru selezionati. Di Russo assaggiamo anche il suo bianco mentre Graci se capisco bene l’ha finito.
I vini ci piacciono tutti anche se con Marie siamo d’accordo che forse preferiamo Russo, che ci sembra un po’ più personale. Chissà che in questa preferenza non entri anche il fatto che lui è un musicista, anche se questo l’abbiamo saputo dopo, quando siamo passati dalla sua cantina a comprare qualche bottiglia.
La degustazione da Graci si conclude con la visita al vecchio palmento, cioè la vecchia cantina di vinificazione, che è veramente molto bella. Graci rispetto a Russo ha un piglio decisamente più “metropolitano” (credo che abbia passato del tempo a Milano in tutt’altre cose prima di decidere di tornare qui a fare vino).  All’inizio ci è parso un po’ sbrigativo, ma appena congeda gli altri ospiti che mi sembra di capire siano giornalisti o qualcosa del genere recupera un po’ di attenzione nei nostri confronti e si scioglie in qualche chiacchera sorridente prima di salutarci.
Siamo soddisfatti. Io almeno lo sono. E oltretutto nonostante il caldo montante non avverto nemmeno di aver bevuto.

Nel pomeriggio ci raggiungono Maite, il fotografo e Aldino che abbiamo coinvolto nella visita all’Azienda di Frank Cornelissen a Solicchiata.

Cornelissen è un produttore di cui ho già sentito parlare parecchio, produce in maniera totalmente naturale, qualcuno lo ama, qualcuno decisamente no. In ogni caso siamo curiosi di conoscerlo, vedere come lavora ed assaggiare i vini.
Come prima cosa ci propone di andare a fare un giro in vigna, il termometro della macchina segna 37 gradi però mi fa piacere poter curiosare nel campo (inteso in senso letterale!) di un vignaiolo così estremo…
Durante il tragitto in macchina verso quota 800 m. dove sono parte delle sue vigne, ci mettiamo a chiaccherare. Cornelissen mi chiede come sono arrivato a conoscerlo e gli spiego che oltre ad averne sentito spesso parlare, un paio di anni fa avevo bevuto una sua bottiglia di bianco che mi aveva consigliato il mio negoziante di fiducia a Roma [ne riparleremo].
Non mi era piaciuto, o meglio l’avevo trovata difettosa, forse era ripartita una fermentazione o qualcosa così. Glielo dico francamente e lui ha un irrigidimento (ne avrà diversi nel corso del pomeriggio): mi dice che non è possibile, che chissà cos’altro era. Io non insisto, non mi va di far partire il nostro incontro in salita e oltretutto non sono certo qua per fare rimostranze. Invece mi interessa sapere della sua storia.

Cornelissen è un belga fiammingo che dopo aver fatto il broker internazionale di vini ha deciso di cambiare completamente vita (è successo a molti vignaioli di prima generazione) e di mettersi a lavorare in campagna. Questo posto, l’Etna, l’ha scelto dopo un viaggio in Georgia che io immagino anche alla ricerca delle radici più antiche della storia del vino.
Mi racconta che appena ha visto questo fianco della montagna, la campagna intorno, l’atmosfera complessiva, gli è sembrato di gran lunga il posto più simile a quelli visitati nel suo viaggio.
Aggiunge anche una cosa che mi colpisce particolarmente. In un primo tempo aveva pensato anche di provare nelle Langhe, dato che gli piace molto il Barolo, ma trova che lì la vite abbia quasi le caratteristiche di una monocoltura mentre lui preferisce che intorno e dentro alle vigne ci sia il massimo di varietà e di compresenza vegetale.

Arriviamo e mentre Maite è assorbita dalla piccola Clara, la figlia di Cornelissen, tre anni appena, che ci ha accompagnato e che le fa vedere tutti i fiori che già conosce, lui ci mostra la vigna che è infatti completamente inerbita. Dalle viti di queste terrazze ricava il Magma, vino esclusivo e costoso che io non ho mai assaggiato, il suo miglior cru.
Mi spiega che la sua idea è quella di intervenire il meno possibile nel percorso della natura, dunque nemmeno la terra intorno alle viti, piantate ad alberello, è lavorata. La muove solo ogni tre anni circa, lavorando manualmente di motozappa, dato che il trattore in questi stretti terrazzamenti è inutilizzabile.
Continuiamo a parlare di vari argomenti alcuni più tecnici (finchè riesco a seguirlo!) e altri inerenti la sua scelta di vita e la sua filosofia nel lavorare la terra. Anche lui mi parla con rispetto dei sui colleghi locali, rimango stupito di come tenga in considerazione anche alcuni produttori etnei più grandi e sicuramente all’opposto della sua filosofia produttiva, questo rafforza sicuramente l’opinione che già mi ero fatto in mattinata.

Fa caldo e vedo che gli altri cominciano ad essere un po’ stufi delle mie domande sulla vigna, anche la piccola Clara ha esaurito il suo catalogo floreale e così quando Cornelissen ci propone di spostarci in cantina ci muoviamo volentieri.

La cantina, in una parte nuova del paese, non ha particolari suggestioni estetiche, anzi. Per contro è il massimo dell’efficienza e del pragmatismo, linda e pinta come fosse un laboratorio. Dato che non usa assolutamente aggiungere nulla alle uve, mi spiega Cornelissen, c’è bisogno di un ambiente di grande pulizia e con separazioni efficaci tra i vari ambienti di lavoro. A vederla così sembrerebbe al limite della pulizia sterile, se non fosse che in cantina c’è bisogno che nell’aria circolino i lieviti per innescare le ferementazioni, dato che qui sono giustamente banditi quelli industriali selezionati.

Quando Cornelissen dice di non aggiungere nulla all’uva intende proprio niente.
C’è tutto un dibattito intorno al vino naturale soprattutto sull’utilizzo della solfitazione che vi risparmio volentieri. Basti sapere che l’anidride solforosa è una sostanza che in enologia si aggiunge in vari momenti della trasformazione dell’uva in vino. Serve in sostanza ad evitare le ossidazioni ed anche a stabilizzare il vino una volta in bottiglia. E’ potenzialmente tossica ed infatti il suo utilizzo è limitato per legge. I produttori naturali tendono ad usarne da molto poca a niente a seconda delle diverse impostazioni, in ogni caso un po’ di solforosa è prodotta naturalemente nel processo di fermentazione dell’uva.
Quando chiedo a Cornelissen se non usi proprio mai in nessun momento aggiungere la So2 so di fare una domanda topica ed infatti lui reagisce con un altro dei suoi irrigidimenti: «solforosa? E perché? A cosa serve nel vino?..». Aggiunge, a mo’ di spiegazione, anche la sua opinione riguardo il modo in cui, almeno in Italia, il vino venga gestito male nella catena distributiva.
Il vino, lui dice (in particolare il suo, dico io), ha bisogno di essere costantemente tenuto a 14 gradi, «se si fa con gli alimenti freschi perché non si fa anche con il vino? Perche le enoteche e i ristoranti non si dotano di locali condizionati se proprio non hanno cantine adatte?» A me non sembra proprio una cosa facile.

Sarà per questo che quella bottiglia di bianco non era buona?

Comincio a farmi un idea del perché questo personaggio divida così le persone: è un misto di rigore quasi ascetico, di ricerca e di attenzione ma con delle rigidità molto marcate, unite ad un pragmatismo tutto nordico. Per esempio per l’affinamento del vino ha optato parzialmente per delle vetroresine (che a me hanno sempre fatto molto poco “naturale”) e per i tappi non usa il sughero ma il silicone. Comunque non si può dire non abbia le idee chiare.

Finalmente arriva il momento di assaggiare qualcosa, siamo tutti un po’ stanchi ma di sedie non si vede l’ombra, qualcuno (il fotografo e anche Aldino, mi sembra) si accascia a terra, alla fine Cornelissen capisce e ci passa qualche cassetta rovesciata da usare come sgabello.
Ci stappa due rossi, il suo base che si chiama “il contadino” e il “MunJebel” che sarebbe l’Etna rosso. Sarà anche per via del percorso di avvicinamento e perché in fondo il personaggio mi affascina, io li trovo buonissimi tutti e due. Sono decisamente vini particolari: è come se si tenessero insieme un’estrema semplicità da un lato, quasi da “succo e polpa d’uva” e una profonda complessità di sfumature dall’altra. Il vino base mi sembra uno di quelli che non ti accorgi nemmeno di aver finito la bottiglia, l’altro è un po’ piu “serio”.

Tutti e due comunque non tradiscono una delle costanti dei vini naturali, la grande bevibilità.

Non capisco bene le reazioni degli altri, secondo me non la pensano esattamente allo stesso modo, ma io me ne porterei via qualche bottiglia, anche se continuo a pensare che fuori da questa cantina dov’è nato e dove è stato coccolato, questo vino possa dimostrarsi un po’ fragile e inadatto a sostenere viaggi e spostamenti soprattutto con questo caldo (anche se giusto per smentirmi poco prima ho adocchiato una serie di cartoni pronti per una spedizione a Malmoe, Svezia!)
Evidentemente non è così, dato che la risposta di Cornelissen è negativa: «il vino l’ho finito tutto già da un po’, non te ne posso vendere neanche una bottiglia!»

Va bene lo stesso, io sono contento. La giornata me la ricorderò a lungo. Riprendiamo (ebbri) la strada di casa.

L.

9 Comments

  1. beh, fortunati….!
    Da anni (sono siciliana e passo parte delle mie vacanze in sicilia) tutte le volte che provo a prendere appuntamento con i produttori dei vini dell’etna mi sento rispondere ( se rispondono…)” beh..ad agosto…è un po’ difficile…”
    quest’anno con alcuni amici siamo riusciti a prendere qualche appuntamento ma arrivati lì non si è visto nessuno!ci hanno piantato! si, piantato! E’ stato molto spiacevole, considerato che non è mai successo in nessuna parte d’italia e d’Europa!
    Anche Graci, di cui conosco e apprezzo moltissimo i suoi vini, dopo averci dato indirizzo e numero di telefono puf! sparito! siamo arrivati alla sua bellissima cantina e non c’era ombra di persona umana…
    che dite, ci riprovo l’anno prossimo o mi accontento come quest’anno di fare degustazioni romane in alberghi del centro?

  2. …e poi però la passeggiata sull’Etna a 2000 mt e il pranzo che l’ha preceduta ci hanno consolati tutti….!!!

    • insisterei Simonetta, insisterei… anche noi (e cioé Luca in particolare che ha fatto loro la posta con ostinazione) ce la siamo un po’ sudata. però, però vale la pena ti direi…
      PS per le degustazioni romane pure Luca è adepto

  3. Bellissimo articolo e splendida esperienza. Sembrava di essere li…. tranne poi non essere “ebbri” alla fine!
    Un nasinasi alcolico
    miciapallina

  4. @simonetta: sono d’accordo con Maite, anch’io insisterei la prossima volta. Io anche quest’anno non sono riuscito a fare tutte le visite che avrei voluto…

    @Vittorio: grazie veramente di cuore!

    @miciapallina: beh, in effetti il tasso alcolico finale è stato parte integrante della giornata…

  5. grazie del consiglio Luca…il problema è che io in quasi un lustro di onorata insistenza non sono riuscita a farne nemmeno una…insisterò!

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