Il titolo della mostra di Pietro Weber, Città d’Oriente, ci ha spinti a uno sforzo di interpretazione: se l’arte sta nella cucina e noi vogliamo mettere la cucina nell’arte, come possiamo tradurre questo titolo (e questa ispirazione) in cibo?
Smembate le parole ci sono rimasti: città e Oriente.
Sulla prima parola urbana abbiamo incrociato piuttosto facilmente l’idea del cibo di strada, o streetfood che dir si voglia, insomma cibo da sgranocchiare in piedi, possibilmente senza ungersi le dita ed è così che sono saltati fuori dei cartoccini a forma di cono pieni di biscottini di kamut le cui forme erano state disegnate dall’artista.
Sulla deriva orientale invece il gioco è stato più complesso. L’Oriente è molte cose e molto diverse, persino, alla fin fine, una direzione che vuol dire semplicemente un po’ più a destra sulla cartina, semplicemente sempre un po’ più in là in un mondo che è comunque tanto rotondo… Dunque messa da parte la filologia ci siamo affidati al ricordo e all’evocazione di un piatto mangiato molti anni fa a un matrimonio, piatto ebraico o turco (qui i ricordi si biforcano e non collimano), cucinato da un amico degli sposi e che associava strepitosamente, quanto insospettatamente, melanzane e melone.
Messo insieme il menù della vernice rimaneva da capire cosa bere…
conversazioni
Queste sfogline ce le hanno “raccontate” e caldamente raccomandate le Fornelle amiche della mamma di maite. Le abbiamo provate e ci sono piaciute perché sono facili, carine e sfiziose. L’unica cosa che ci siamo chiesti e che ancora ci chiediamo è perché proprio conversazioni si chiamino.
È perché sono facili da sganocchiare fra una chiacchiera e l’altra? È perché sono tutte avvitate su se stesse come molte conversazioni? È perché una tira l’altra come le parole unadietrolaltra, fitte fitte delle amiche mentre cucinano?