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Collorelle siciliane

Se mio padre legge che le ho chiamate “collorelle” farà il diavolo a quattro. Per lui son “cudduredde/i” con quella “e” che rimane sospesa tra i denti a mezza via con una “i”, ma ambigua, acennata, con dentro quel gesto dal basso verso l’alto che solo in Sicilia vuol dire no invece che sì.

Tutti i popoli del mondo dicono no muovendo il capo lateralmente e dicono sì muovendo quel medesimo capo lungo l’asse verticale, i siciliani no, i siciliani dicono, anzi accennano a un no (in realtà molto definitivo) muovendo leggermente la testa dal basso verso l’alto.
Da questo si dovrebbe poter capire perché in Sicilia una ricetta ha mille versioni e tutte e mille pretendono di essere l’unica, l’autentica, l’assoluta! A garanzia si chiamano in causa numi tutelari familiari da tre o quattro generazioni, la zia Maria, la nonna Concettina, le cugine… tutte femmine e tutte da secoli riunite attorno al tavolo di marmo della cucina a impastare, spesso assieme, quando l’occasione lo richiede.

Così è di questi dolcetti che per me erano rimasti in fondo un racconto mitologico, fino a questo Natale.


Mio padre, nato a sud dei monti Erei in un piccolo paese nei dintorni di Caltagirone, aveva delle zie e delle cugine di città (di Caltagirone appunto…). Le zie, ed in particolare una, la zia Gina, avevano l’eredità perduta di una fabbrica di ceramiche e un negozio di mode in cui mio padre, bambolotto di sei mesi, finì esposto nella vetrina in completo di lana d’angora e boccolo-tirabaci sulla fonte.
Negozio a parte le zie, e le cugine, Aurelia e Letizia, a metà dicembre, puntuali, si mettevano al lavoro. Era lavoro collettivo e impegnativo, con molti chili di impasto e molte ore davanti, ma il risultato era un merletto finissimo con un ripieno di semola, mandorle e miele. Roba da mille e una notte. E nelle mille e una notte il ricordo era rimasto prigioniero, ah ‘e cudduredde/i, quelle vere, mica quelle schifezze/rozze che fanno a Giarre (ndr il paese di mia madre…)

E le codduredde/i, o collorelle son rimaste solo memoria. Ci è voluta la testardaggine e l’amore di Lucilla per decidere che quest’anno andavano fatte sì, o sì. Così, con la ricetta arrivata via watsup da Maria Antonietta (prontipote delle cugine) si è messa pazientemente al lavoro, con l’intrepida incoscienza di quando si mette in cantiere una ricetta tradizionale che non solo non si è mai vista fare, ma nemmeno mai assaggiato (so di cosa parlo…) .

Il risultato ha premiato lo sforzo e alcune cose si sono capite lungo il cammino, come ad esempio la cottura per la quale non c’era molto appiglio nella ricetta delle zie…

La ricetta (delle zie, in realtà cugine di mio padre, di Caltagirone)

per la pasta
1 kg di farina
250 g di strutto (per noi burro)
250 g di zucchero

Per il ripieno:
500 g di miele (per noi castagno, ma sospetto in Sicilia sarebbe di zagara)
300 g di farina di semola
200 g di mandorle tostate e tritate
scorza di arancia grattugiata
100 ml circa di acqua

Per la pasta formate una fontana sul piano di lavoro al centro unite lo strutto o il burro ammorbidito e cominciate a lavorare con la punta delle dita, incorporare poca acqua alla volta fino ad ottenere un impasto omogeneo e liscio. Raccoglietelo in una ciotola copritelo con un piattino e uno strofinaccio e lasciatelo riposare tutta la notte.

Dedicatevi al ripieno. In un tegame dal fondo spesso scaldare il miele con l’acqua, unire le mandorle tostate e tritate, la scorza di arancia grattugiata e quindi la semola poco per volta. Mescolare finché il composto non si addensa ma senza arrivare al punto che sia troppo duro e difficile da maneggiare.

Riprendete l’impasto e stendetelo prima al mattarello e poi con l’aiuto di una macchinetta per la pasta fino ad ottenere delle lunghe strisce. Con l’impasto formate dei salsicciotti che avvolgerete con la pasta stesa, confezionando con pazienza degli anelli.
Decorateli quindi con dei piccoli pizzichi sull’impasto (noi abbiamo usato le pinzette per le sopracciglia…) quindi cuocete in forno a 180°C per circa 15/20 minuti, e sfornate non appena iniziano a indorare.


Note. Se volete ammirare gli strumenti bellissimi con cui si realizzano i pizzichi guardate qui, vi farete anche un’idea più precisa di come procedere con l’arrotolatura dell’impasto. Io purtroppo questa volta mi sono ricordata di Chez Munita troppo tardi e pensare che avevo pure lasciato un commento… ma son passati 11 anni, (ehm..)

berlino, 48 ore

E adesso da dove cominciamo? Qui occorre  provare ad appigliarsi a un filo, uno pescato quasi a caso, e patire da lì per cercare di dipanare un racconto quasi sensato di quel che è successo a Berlino in questo week end lungo e corto, che ha dilatato le sue ore.

Di corsa, di corsa. Siamo arrivati un po’ di corsa nella notte di venerdì bigia e ugualmente umida tra Roma e Berlino, poi tutta una giornata convulsa di preparativi e sorrisi, sorrisi e preparativi che di parole tedesche ne avevamo in bocca assai poche. 5 chili di involtini (alla zia Graziella saranno fischiate le orecchie), 8 padellate di melanzane per la caponata più grande della nostra vita (montata in quattro tempi), un numero imprecisato (ma a tre zeri) di olive farcite, sei scaccie più o meno ragusane e il solito miracolo delle minne (questa volta però con ben 28 stampini).

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