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Brulè di mele

Siamo in Trentino da una settimana, al calduccio confortevole della nostra casa sotto i tetti e aspettiamo la neve. Usciamo poco, anzi pochissimo, ma questa lentezza è un ritmo che ci piace, che fa sentire con più chiarezza le cose.

Cuciniamo, leggiamo, stiamo insieme. Da oggi ripensiamo anche a prendere il filo di molti progetti di lavoro, ma con calma, come se le ore qui si fossero fatte più lunghe. Forse perché fuori fa freddo, forse perchè questo anno è tanto diverso e tanto difficile e la notte arriva ancora molto presto qui con le montagne vicine.

Ci prendiamo il tempo insomma e anche coccole semplici, come questo succo di mela che scaldato e speziato diventa irresistibile.

Ingredienti
succo di mela (il migliore che riuscite a trovare!)
succo di limone fresco
zenzero fresco
cannella in polvere

Se volete conservare le proprietà del succo di mela (possibilmente bio, possibilmente non pastorizzato, ma insomma anche quello che riuscite a trovare andrà bene) scaldatelo facendo ben attenzione a non arrivare al bollore. Aggiungete il succo di limone (la quantità va un poco a piacere, a me piace molto aspro dunque arrivo a quasi mezzo limone per tazza, ma regolatevi al gusto), la cannella in polvere (anche questa a piacere) e lo zenzero possibilmente fresco (io dopo anni di intenti lo spremo con uno schiaccia/aglio dell’Ikea che dedico ormai solo a questa operazione). Mescolate bene e godetevelo!
Nota: potete variare le spezie a gusto e a disponibilità, aggiungere l’anice, o anche la curcuma.

Nude cake di Halloween

“Mamma, la facciamo di sei piani!!!???!!!”

Non è che io sia stata fino ad oggi una entusiasta di zucche mascherate e mostri commestibili, in generale intorno ad Halloween ho tirato dritto senza gridare allo scandalo ma senza nemmeno sentirmi molto coinvolta.

Poi succede che una figlia di sei anni e una città che adotta qualunque tipo di festa ti tirino per la giacchetta e così ti trovi immersa nella progettazione di una torta ambiziosa, anzi ambiziosissima.

Anna si è seduta al tavolo grande della cucina ed ha iniziato a disegnare il suo progetto: strati e strati, zucche su ogni piano, voli di pipistrelli e porpurina ovunque. Piano, piano abbiamo mediato, io dalla prte del realismo e lei da quella dell’ambizione.

Abbiamo acceso il forno, avviato la planetaria. Anna voleva far tutto da sola e mi scostava la mano, io ho tenuto (più o meno) a freno il mio imperialismo in cucina, il Fotografo (che è anche Matematico) ha pareggiato gli strati e calcolato le pendenze.

Alla fine fiere e contentissime abbiamo trasportato la nostra Nude cake fino al negozio della Claudia che per fortuna ci è tanto e tanto vicina. La festa è stata bellissima, la torta è finita in un baleno e sono scomparse anche le zucchette….

La ricetta

Note:
per due stampi da 22 cm e da 16 cm di diametro

10 uova
500 g di farina
400 g di zucchero
100 ml di succo di mandarino
50 ml di olio extravergine di oliva
16 g di lievito
1 pizzico di sale

Montare le chiare con il sale, quando incominciano a gonfiare incorporare la metà dello zucchero e continuare a montare fino ad avere una neve ferma.
A parte battere i tuorli con il resto dello zucchero e i liquidi (freddi!), una volta ben omogeneo aggiungere al composto la farina setacciata con il lievito. Mescolare perfettamente e incorporare con delicatezza gli albumi montati. Versare negli stampi a cerniera imburrati benissimo, battere leggermente e cuocere a forno basso 160-170°c per circa 50 minuti/1 ora.
Nota: l’ideale è preparare le besi il giorno prima e lasciarle raffreddare completamente per tutta la notte.

Per la farcitura:
100 ml circa di succo di mandarino
100 ml circa di succo di melograno
250 g di ricotta
300 g di quark o di yogurt greco
Nota: per il mio gusto non serve zucchero nella farcitura ma valutate voi…

Per la copertura:
200 g circa di mascarpone
+ 1 cucchiaio di farcitura alla ricotta

Una volta completamente fredde tagliate le torte e bagnatele a strati alterni con il succo di mandarno e il succo di melograno. Farcitele con la crema di ricotta e quark e ricomponetele. Per agevolare la tenuta della struttura utilizzate degli stecchi di legno da involtini per fissare la rorta con il diametro più piccolo.
Spatolate quindi con il mascarpone (toglietelo dal frigo un poco prima di utilizarlo!) e decorate a piacere.

Nota: i biscotti a pipistello sono semplicemente di pasta frolla. Se vi piace l’idea ricordatevi di tenerli un poco alti altrimeti non riuscirete a infilzarli con gli stecchi.

I limoni di Ottolenghi

Era il 2010 e ci era sembrata un’idea geniale. Mettere i limoni in conserva, così come si usa nella tradizione mediorientale e lasciare che il sale ne estraesse il profumo, oltre che il sapore.

Il titolo di quel lontano post non avrebbe potuto essere più profetico: perché dei cirtons confits avremmo fatto uso e abuso, sviluppando una specie di dipendenza olfattiva che ci ha portato a metterli ovunque.
Da allora in poi il sale semplice ha finito per risultare scipito, piatto, privo di grazia fino ad essere poi in gran parte sotituito dall’acidultao di umebshi, ma questa è tutta un’altra storia che ha a che fare con la svolta salutista del Fotografo.

La verità in realtà è semplice: abbiamo un giardino di limoni e all’amore per questi frutti un poco speciali si aggiunge la necessità di preservarne il tempo e il profumo.

Così quest’estate abbiamo portato con noi in Sicilia il libro di Ottolenghi, quel Jerusalem che ci sembrava adatto al clima, alle verdure, alla cucina che ci nutre lì.
Tra le pagine la ricetta dei limoni in conserva ci ha colpito perché era diversa da quella che conoscevamo, precisa come tutte le ricette di Ottolenghi, ma anche facile, possibilissima da mettere in cantiere lì.

Ci siamo arrampicati sui custeri, ovvero le terrazze del giardino dove rimanevano ancora alcuni limoni non colti e ne abbiamo portati a casa un cesto enorme. Poi abbiamo seguito le istruzioni. Li abbiamo messi in un barattolo gigante e poi travasati in regali da portare agli amici.
Riposano nelle dispense e tra poco sarà il momento di aprirli.

La ricetta
6 limoni non trattati (o un loro multiplo ovviamente…)
6 cucchiai di sale grosso
il succo di 6 limoni
rametti di erbe aromatiche (rosmarino, ma anche timo)
peperoncino a piacere (ma senza esagerare)
olio extravergine di oliva

Lavate con cura i limoni e scaiugateli. Quindi indideteli a croce dalla parte appuntita verso l’attaccatura lasciando circa 1,5 cm della base. Riempite ogni limone con il sale e sistematelo in un grande barattolo (sterilizzato) premendo con forza. Alla fine i limoni devono entrare tutti ma starsene stretti stretti. Io ho colmato con ancora un paio di cucchiai di sale, anche se nella ricetta di Ottolenghi non è previsto.
Conservate quindi il vaso nella dispensa per una settimana, o 10 giorni (avenfo cura di verificare che tutti i limoni stiamo a bagno nella salamoia che si andrà formando (io di tanto in tanto giravo il barattolo).
Trascorso il tempo aggiungete il succo di altri 6 limoni (o del multiplo con cuiavete lavorato) le erbe aromatiche, il peperonicino e colmate il vaso con un dito di olio extravergine di oliva (io per facilitarmi le cose ho travasato i limoni in barattoli più piccoli per poterli trasportare in Continente e regalarli agli amici).
Lasciare riposare 1 mese almeno, ma secondo me fino a Natale è l’ideale.

gnocchi viola

 

L’anno si sa comincia a settembre. E noi che non abbiamo fatto in tempo a toglierci di dosso il calendario del nostro lungo passo scolastico ci siamo ritrovati alle prese con quello di Anna che quest’anno ha iniziato la prima (!). Così, annaspando per una ripresa che quest’anno è stata più faticosa e più lunga del solito, ci siamo trovati in bocca di ottobre con la luce che cade e il Natale che sembra all’improvviso vicino.

 

Se il cambio degli armadi lo continuo colpevolmente  a rimandare così non si può fare con la cucina, che segue un andamento suo che non sente ragioni, un ritmo legato alla metereologia, al mercato e anche misteriosmente al desiderio.

Tutto questo preambolo per dire che è tornata la stagione del cibo caldo, dei primi brodi e degli gnocchi che non abitano tanto il nostro giovedì quanto più facilmente il fine settimana, quando si ha tempo di andare un poco più tranquilli, anche se poi a conti fatti ci vuol meno tempo di quel che sembra…

Nel caso di questi coreografici gnocchi viola (che sono nel nostro libro Giovedì gnocchi, monograficamente dedicato agli gnocchi…) la cosa più lunga (e complicata!) è sicuramente procurarsi le patate viola!

Però vale la pena: cercatele per mari e per monti e se le avvistate non lasciatevele scappare! Sanno un poco di castagne, sembra che facciamo benissimo e tingono l’acqua di cottura in maniera inaspettata, provare per credere.

La ricetta tratta dal nostro libro Giovedì gnocchi, Guido Tommasi Editore

800 g di patate viola
1 uovo
1 cucchiaino di grappa
150/200 g di farina
1 cucchiaino di sale per l’acqua di cottura
1/2 cucchiaino di sale per l’impasto

Lavare con cura le patate, strofinarle con una spazzolina e metterle a cuocere in una pentola ampia in cui entrino comodamente ben coperte di acqua fredda. Aggiungere il sale e cuocere a fiamma media fincheè non siano morbide.
Una volta pronte scolarle, sbucciarle e passarle al passapatate ancora caldissime lasciandole cadere direttamente sul piano di lavoro. Una volta che la purea si sia intiepidita, fate un incavo al centro aggiungere l’uovo legermente battuto, la grappa e il sale e cominciate a lavorare l’impasto incorporando la farina poco alla volta. Quando avrete ottenuto un impasto lavorabile formate dei salsicciotti con il palmo delle mani, quindi ritagliate gli gnocchi.

Tuffateli in abbondante acqua salata bollente e appena verranno a galla raccoglieteli con l’aiuto di una schiumarola. Conditeli a piacere. SUl libro trovate la nostra proposta con funghi Shitake e Malvasia.

La torta ma-po

Il Fotografo ci gira intorno da un poco. Credo che gli piaccia il colore cangiante, quel verde che poi cede al giallo con tutto un suo cuore aranciato.

Così ci abbiamo fatto nature morte e nature vive, sempre con i mapo al centro, quelli che per me sono un incrocio tra mandarini e pompelmi, comparsi in una data imprecisata dei primi anni Novanta nei mercati italiani. A casa nostra li portò un giorno mia madre che era sensibile a tutte le novità, così come aveva fatto con i kiwi e come avrebbe fatto con altre esotiche meraviglie più tardi.

Qui a Barcellona al banco delle nostre pagesas (ovvero la Juana e la Maria che portano le cose dai loro campi di famiglia) tirano un poco dritto e li chiamano semplicemente mandarinas, considerando sofismi un poco inutili se debbano avere la pelle verde, gialla o aracione. Sono citrici, sono piccoli, vengono prima delle arance, sanno più o meno di mandarini dunque sono mandarini!

Fatto sta che l’infatuazione estetica del Fotografo si è tradotta in alcuni chili di mapi distribuiti nelle fruttiere di casa. E sbuccia e spremi e spremi e sbuccia, qui non si sapeva bene come uscirne.

Di mezzo c’era pure un certo nervosismo in giro per casa: le prime settimane di Primaria (sì, Anna ha iniziato la prima elementare… anche se mi chiedo ancora come sia potuto succedere tanto velocemente) non sono state esattamente la passeggiata che tutti le avevamo entusiasticamente dipinto. E anche se le cose son velocemente migliorate, e la maestra Judith è oramai l’incarnazione della bellezza (e della sapienza) in terra, toccava impastare qualcosa di dolce per sollevare l’animo e andare tutti insieme alla prima festa della scuola.

Ne sono uscite delle madelaines classiche classiche, solo un poco più sbarazzine del solito (chi ci segue in Instagram sa perchè…) e poi questa cosa qui, una torta buonissima che rifarei domattina, ma sì sa le infatuazioni (del Fotografo) son passeggere, così aspettiamo e vediamo che cosa ci riserva il futuro.

La ricetta

5 uova
250 g di farina
125 g di panela (o zucchero integrale)
80 g di zucchero a velo
25 ml di olio extravergine di oliva
50 ml di succo di mapo
+ il succo di sei/otto mapo circa per bagnare il dolce
8 g di lievito in polvere
un pizzico di sale

Per una teglia di circa 22 cm di diametro
Montare gli albumi con un pizzico di sale, quando cominceranno ad essere consistenti aggiungere lo zucchero a velo e montare a neve ferma.
Battere i tuorli con la panela, aggiungere 50 ml di succo di mapo e l’olio extravregine di oliva. Quando il composto sarà uniforme incorporare poco alla volta la farina setacciata con il lievito.
Infine incorporare gli albumi con grande delicatezza, mescolando con una spatola dal basso verso l’alto.
Versare in uno stampo molto ben imburrato e cuocere a 180°C per circa 45 minuti. verficare la cottura con lo steccgin, quindi sfronare e girare subito il dolce. Quando sarà tiepido bagnare con il succo di mapo a piacere.

cerzazza 2019

è stata un’estate lunga, di quelle che si sfogliano piano e che, anche se lo sai che vero non è, pur da qualche parte sei convinto che non finirà.

Abbiamo macinato chilometri e paesaggi, ci siamo fermati spesso per scattare fotografie che non potevano aspettare, abbiamo mangiato granite, tenerume, molto cavolo trunzo, raccolto more selvatiche (quante quest’anno!!) conosciuto gli asini dell’Etna, le caprette girgentane e certi cavalli solitari da qualche parte sui Nebrodi. Insomma siamo stati in Sicilia.

In Sicilia quest’anno come tutte le estati della mia vita da quando sono nata, e come tutte le estati nella vita del Fotografo da quando mi conosce e pure come ogni estate nella vita lunga sei anni di Anna.

E a pensarci è strano quanto diversa possa essere ogni stagione pur se lo scenario resta lo stesso, gli stessi i gesti e le cose: la vestina a fiori che mi infilo appena arrivo in campagna, gli stivali di gomma, il profumo dei limoni e gli sciami di zanzare. La luce così violenta, la cucina larga, le sedie su cui riposo. Ma quest’anno per la prima volta tutto sembrava più degno di nota e ognuno di noi ha preso i suoi appunti. A modo suo.

Per Anna è stato un quaderno coloratissimo e tutto mescolato, un poco di corsa, un poco attento. La vita misteriosa dei formicai, i capperi raccolti sui sassi neri di lava, gli arancini, il cinema all’aperto, le scarpe sempre dimenticate, un cugino con cui giocare un poco ai pompieri e un poco alle pozioni, i profumi “distillando” al sole le erbe selvatiche.
E in generale tutto un prendere la misura del proprio passo, sulla terra, nell’acqua e nella notte… Sono grande mamma!, Ci sono serpenti? Ci sono pomodori di mare? Mi metto un bracciolo, uno solo… mamma mi tieni la mano?

Ha cavalcato covoni di fieno, asini dell’Etna, qualche onda e almeno idealmente cavalli e piccoli pony.

Il Fotografo, lui, ha sofferto un poco. La campagna non è il suo ambiente, anzi gli è proprio ostile, una specie di affronto. Le zanzare gli hanno dato il tormento, la luce era difficile da comandare, e un’allergia violentissima gli ha esasperato i giorni fino alla metà di agosto, quando il sole ha finalmente cotto ogni erba spontanea.
Consolarsi gli è toccato consolarsi, con il cavolo trunzo a colazione e la portulaca per merenda. A parte questo e come sempre la sua consolazione è stata la fotografia e qui ha concentrato i suoi appunti.
Forse in questo c’entra Instagram di cui gli è presa una malattia tardiva ma serissima, con un corto circuito che a me ha fatto molto pensare.

Spesso i social, Instagram (ma per me forse in misura ancora maggiore Pinterest) sono visti come i ricettacoli di una falsità che si mette in posa, ritagliando il lato migliore di sé ed escludendone o mascherandone la verità. Ma se fosse vero anche il paradossale contrario? Se lo sguardo che posiamo sulla nostra colazione una mattina presto sotto al pergolato di kiwi non mettesse magicamente in ordine le linee, allineasse la geometria candida dei piattini, disordinasse quanto basta due piparelle alle nocciole di cui sento ancora il profumo?


La vita è lì, la bellezza pure, forse basta solo guardarla, e volerla fotografare diventa una buona scusa per guardare meglio, anche quello che ci è più familiare, più consueto, un poco come quando si fa un inventario.

Così se penso ai miei appunti penso proprio a una sorta di inventario. Mi sono appuntata visivamente (e non solo) quello che già sapevo, ma anche le nuove scoperte che inaspettatamente sono state tante.
La Sicilia è realmente un continente, lo è per me personalmente per tutto quello che di vivo e di morto costudisce, ma lo è in generale per chi ci vive e per chi ci transita, se solo si concede il lusso di andare oltre gli stereotipi o egualmente di non dar già tutto per conosciuto.

Guardare alla Sicilia, bisogna pure che lo dica, non mi viene sempre facile. Mi arrabbio, mi irrito, a tratti mi sconforto in un continuo andare e venire tra l’amore e la rabbia.

Perché la terra è generosa e fortunata, qui cresce veramente ogni cosa ma sembra che la si dia per scontata, spesso senza cura, senza amore o anche senza speranza. Le ragioni sono molte, complesse e intricate, non sono in grado si sbrogliare la matassa ma spesso, ben oltre il tempo dell’estate, me la trovo tra le mani non sapendo bene come pensare. Le strade, l’immondizia, l’impossibilità di una gestione lineare, i percorsi sempre ritorti, la sensazione che tutto si fermi, congelando spesso più nel male che nel bene ciò che sempre è stato in ciò che sempre sarà, magari un poco peggio.
Forse anche per questo mi sembrava interessante fotografare, con il telefono, ma anche con il cuore. Rischiando certo di evitare l’inquadratura di quel che mi disturba, ma concentrandola sul quotidiano di questa mia sedia, questo mio tavolo, lo scolapasta con la sua storia, il canovaccio che ricordo qui da sempre.

E il miracolo ha funzionato (almeno un poco) anche per il Fotografo che si è ritrovato a fotografare la geometria degli aranceti, lo sfondo del vulcano sempre impennacchiato e la curiosità irresistibile delle caprette girgentane.

Ci è voluto un viaggio lunghissimo per arrivare a Campobello di Licata, un paese tocca dirlo non proprio bellissimo ma con un grande tesoro e una bellissima storia che meriterà di essere raccontata per intero.
Da anni volevo andarci, dopo aver assaggiato grazie a Valentina Chiaromonte il ficu (un formaggio fresco di latte di capra girgentana, cagliato con latte di fico e avvolto tra le foglie del frutto) e il suo profumo. Così finalmente in un torrido pomeriggio di agosto, senza che ci fossimo annunciati siamo capitati sulla porta del mini-caseificio dell’Azienda Montalbo e Davide Lo Nardo ci raccontato e mostrato ogni cosa. Adesso so che vorrò tornarci ogni estate, sfidando le buche della strada che forse un giorno smetterà di essere tanto dissestata.

Un’atra Sicilia tutta diversa ma egualmente testarda è quella di Sabadì che abbiamo incontrato, anche qui senza preavviso a Modica in una giornata di cui ho un ricordo bellissimo. La sua storia è quella di un emigrato al contrario, come lui si definisce, che ha scelto di vivere e lavorare in Sicilia lasciandosi alle spalle il Veneto per inventarsi la libertà di un giorno che forse non esiste ma forse invece sì, un sabadì, appunto un sabato e un giovedì, un mercoledì oppure persino un lunedì.
La sua non è soltanto una storia di successo ma una piccola grande rivoluzione contro lo stereotipo, ma pure contro la via corta che impedisce di pensare le cose, anche il cioccolato, più buone da tutti i punti di vista.

Assaggiare quello che fa vuol dire capire perché.

E infine Gangi, dove ci siamo arrampicati a più riprese, un paese bellissimo e un poco magico, che meriterebbe tutto un romanzo, oltre alla faticosa strada che si fa per raggiungerlo.
Lì abbiamo tenuto uno dei nostri corsi di fotografia di cibo, ospiti di un’amica fotografa incontrata anche lei lungo il cammino e di cui non potremo mai scordare l’ospitalità. Lì, molto lontano dalla Sicilia etnea che conosco, ci siamo concentrati a fotografare un cetriolo che cambia nome in ogni contrada, più o meno quello che in Puglia si chiama carosello.

Io in Sicilia non lo avevo mai visto, ma la Sicilia è appunto un continente e mai e poi mai puoi presumere di conoscerne le forme. Per questo tocca sempre prendere appunti e fotografare, per Instagram, per il proprio personalissimo inventario, per non perderne la memoria, o anche solo per guardare e cercare con più attenzione.

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