Qui zitti zitti abbiamo lasciato passare un anno e ci ritroviamo con una data che suona ancora buffa da scivere, quasi il titolo di un film di fantascienza. Ma a dimostrar che è vero, che i giorni sono scivolati più o meno lentamente tra Venezia e il Trentino, il raffredore e il mal di gola sono rimaste alcune tracce alimentari che hanno fatto appena in tempo a imprimersi nella macchina del fotografo affamato. Tra questi la gioia di un musetto con tutta una sua storia particolare che sapeva di cavolo fiolaro, di peregrinazioni gastronomiche, di un “povero” padre messo alle calcagna di aspirazioni cibesche.
Sì perché a furia di sentire parlare di cibo, di prodotti, produttori, pani con madre certificata, formaggi di fossa, di altura, di transumanza, cavoli assortiti, puntarelle, misticanze capita che anche il padre più distratto, pur con una buona predisposizione al cibo, scorga in una macelleria tutta una promessa. La cosa era iniziata, a dire il vero, con tutta la vaghezza di qualche notizia sfogliata sull’inserto domenicale del Sole 24 ore a firma di Paolini, ma poi dietro a questa si è scatenata una caccia al tesoro.
Battuta palmo a palmo la zona, comprato un salame (in verità soppressa) solo per avere indicazioni sulla macelleria giusta, finalmente il papà ha trovato l’indirizzo giusto e conquistato il musetto con cavolo fiolaro nell’impasto.
agnello al limone (quasi Donna Hay)
In partenza avrebbe dovuto essere Donna Hay, semplicemente e unicamente Donna Hay, del tipo scegli una ricetta, ti procuri gli ingredienti e procedi passo passo, libro alla mano. Ma la verità è che strada facendo la faccenda si è adattata a quello che conteneva, e soprattutto non conteneva, la dispensa e il placard. Agnello certo, un cosciotto disossato, e poi limone ed erbe aromatiche, spezie e patate ancora nuove; ma tra aggiustamenti progressivi, adattamenti necessari e variazioni collaterali ci siamo allontanati a tal punto dalla versione originaria da faticare a riconoscerla. L’ispirazione però, quella sì, è tutta sua.
il garofolato di Roberto Liberati
Ci sono esperienze che nella vita sai che saranno irripetibili. O quasi.
In questi giorni (sì, perché la lavorazione e la cottura è stata a fuoco molto, molto lento) ne abbiamo vissuta e cucinata una: un garofolato. E mica un garofolato qualunque, un garofolato di 6,4 kg, che ha cotto per 18 ore a 70 °C. Son cose, grosse.
faraona e clementine per il pranzo di natale?
Quanto tempo è che non mettevamo in forno (e prima nella macchina fotografica) un po’ di ciccia?
è vero che di carne tendiamo a non magiarne moltissima, è vero pure che tra le cose da fotografare è una delle più ostiche, ci sta pure che necessita di una certa premeditazione, ma è anche vero che vista da vicino la faccenda è molto più semplice di quel che sembra.
Entriamo dunque nei dettagli. Questa qua sopra è una faraona di circa un chilo e mezzo finita in bocca al forno con un contorno aranciato di clementine, e qualche spezia, ha fatto una suntuosa figura nel profumo e nel sapore, tanto che, quasi quasi, la si potrebbe replicare in un ideale menù di Natale…
satay babi
La settimana, si è capito, è su un’onda tutta etnica, esotica, a tratti un tantino fusion o, detta con un termine molto più carino, tutta mescolata. Perchè certo è bello il cibo della nonna, della zia e della mamma, è bello raccontarsi sempre le stesse favole alimentari, sapere sempre prima come va a finire e godere proprio del fatto che le cose restino uguali a loro stesse, ma è bello pure guardarsi intorno, sentire in bocca un sapore che prima non c’era, sposare cibi altri e magari pure altre mogli e altri buoi…
Battute a parte, questi spiedini qui sopra sono il secondo tempo della cena indonesiana di Silvia&Cori iniziata nel post di lunedì con il nasi goreng ed intervallata (o interrotta…) dall’incursione del canederlo thai fuoriscito dal nostro libretto.
filetto di maiale alle nespole, surgelate e non, in due pentole Staub
In ritardo (come sempre) sui tempi di marcia (ma pure da marcia visto la quantità di cose che stiamo sobbollendo in pentola in questo periodo), rischiamo di perdere il treno della stagionalità.
Veloci, veloci, vite, vite!! pubblichiamo di corsa questa cosetta qui che è stato un esperimento molto, molto riflessivo sulle nespole che arrivano tutte insieme e spariscono tutte insieme, sul timo e sulle pentole a breve e a lunga percorrenza…
coniglio con senape e dragoncello
La cucina francese ha un appeal tutto suo, carico di immagini sfumate in cui ognuno scorge, un po’ a piacere, la sua personale mitologia.
In questo gioco il fotografo è particolarmente bravo, per lui la cucina francese risuona soprattutto del rumore un po’ umido delle brasserie rassicuranti dove Maigret ha il suo tovagliolo, dove si ordina la blanquette de veau, andouillettes, soupe à l’ oignon, etcétéra, etcétéra. Ma è pure la cucina, concreta e vivissima nella memoria, della nonna Fanette, bretone e coraggiosa, sbarcata a Roma per colpa di una bugia e rimasta per amore.
Per Marie, lo dice il nome stesso, la cucina francese è soprattutto roba di casa con tutte le declinazioni di mani e di specializzazioni: la daube del suo papà, la pissaladière della zia Danielle, le steak au poivre di maman e ora pure di Manu. E poi è Parigi che non è mai abbastanza vicina, mai abbastanza a portata di mano, troppo lontana forse proprio per il ricordo di quegli anni candivisi insieme in molti giorni. Lo square Trousseau, le ostriche al Baron Rouge, la faccia rotonda di Luc e il suo gigot, quella certa tartare che a qualcuno veniva così bene, le facce di ogni colore e di ogni profilo del marché d’Aligre.
A tutto questo nella mia mitologia personale, fatta insieme di ricordi romanzati dal tempo e da romanzi che si sono incarnati nel tempo personale fino a confondersi con i ricordi, aggiungo le serate vin et fromage, il pollo alla Benoît che prima o poi troverò il coraggio di rifare, il mio marché sul boulevar Richard Lenoir, tanto tanto vicino alla casa di Maigret… ma il fotografo allora davvero lo ignorava.
steak au poivre vert
Questo grande classico della cucina francese andrebbe rubricato diretto-filato nella categoria “ricette da single”. Non perché in sè sia semplicissimo (niente di particolare ma qualche destrezza sui tempi la richiede), ma perché, per qualche ragione forse non del tutto esplicitabile, fa un effetto altamente seduttivo. Sarà che è carnoso, cremoso, piccante, aromatico, sarà che appunto fa francese ma francese classico, ossia parigino d’antan, sarà che in qualche misura è un piatto che viene da associare al maschile, ma insomma sarà quello che sarà le steak au poivre “fa sangue”.
Lo immagini, lo guardi, lo mangi e lo associ a un uomo in maniche di camicia, a un grembiulone di quelli virili lunghi scuri senza pettorina e riallacciati davanti, a una brasserie in un autunno parigino ed evidentemente piovoso, a un ballon di merlot, eccetera, eccetera, eccetera…
spezzatino di pollo al limone caramellato
Si continua dunque la cena del Fotografo (quella iniziata con la Vichyssoise de tomate y menta) con un pollo, aspirante cappone, italianissimo e esente da traduzione.
Chissà se nella testa di Maite (che l’ha pescato in una certa rivista di sale e di pepe, questa volta italiana, italianissima) questo pollo è il prolungamento di quella “ossessione” stagionale per il limone sotto sale (altrimenti ribattezzato citron confit) che, bisogna dirlo, fa leccare i baffi a chi deve smaltire i suoi esperimenti! Qui il limone, invece di confittarsi dovrebbe caramellarsi a fuoco lento sulla pelle del pollo. Il risultato, a giudicare dalle ossa a fine pasto, è interessante, l’unico rammarico sono i limoni siciliani (che non c’erano e la differenza si sente). Insomma va a finire che il fotografo, oltre al php che in questo periodo se lo sogna anche di notte, dovrà avere dimestichezza anche con la stenografia… che al telefono è indispensabile!
polpettine rinforzate al pesto
Il fotografo ha un anno di più e tra le altre solide certezze della sua cena di compleanno di ieri c’è stata la scoperta (!) che le polpette non sono soltanto gioiose e versatili, ma del tutto inclini ad essere rinforzate. Il pesto di eri, quello dei ricordi, è finito copioso nell’impasto, anzi per essere maggiormente solidale all’insieme lo abbiamo montato prima con le uova e quindi aggiunto a mano alla carne.
Per il resto procedimento del tutto classico e risultato da sbattersi per terra, almeno a bocca di un certo architetto napoletano, normalmente goloso di cioccolato, arrivato in serata per festeggiare il genetliaco.
PS la scatolina viene invece dritta dritta da Parigi per mano della Marie
arrosto alle visciole
Non è stagione per le visciole fresche, quelle che, nell’infanzia del fotografo (!), si chiudevano in un barattolo con lo zucchero e si lasciavano ubriacare tutta l’estate al sole, per poi averne diritto in inverno, ma con moderazione. Le visciole in questione sono secche, disidratate, comprate nel banco fornitissimo di un mercato romano che abbiamo saccheggiato in un lungo e largo, dal lime al mirtillo rosso. A casa le abbiamo messe in posa con un’arista di maiale, come spesso abbiamo fatto con la carne e la frutta, e poi in pentola e in forno con poco scalogno e un bicchiere abbondante di vin santo tanto che alla fine anche queste sono risultate ubriacate.
coniglio al gin(epro)
“è tardi! è tardi!”, ed è tardi davvero… che qui le giornate sono diventate strette, correndo e zompettando e poi impastando e rimpastando, con il fotografo rimasto solo a cucinarsi le uova di Parisi (beato lui!) e le cuoche un po’ stremate tutte inzaccherate di farina. “è tardi! è tardi!” e tempo di cucinarsi qualcosa non ce n’è (nemmeno l’uovo al tegamino) così, a pensare a certi conigli ci è tornato in mente questo che è finito in pentola (a forza di far tardi?) con bacche di ginepro e una marinatura alcolica, che a partire dalla ricetta trentina avrebbe dovuto essere di grappa, ma che in sua mancanza è stata corretta al gin…
carrè di maiale al sale
Viene voglia di dirlo subito che tra gli ingredienti di questa ricetta, che viene dritta dritta dallo splendido libro di Stéphane Reynaud dedicato agli arrosti, ci vogliono martello e bicipiti saldi. Non che la carne sia dura, anzi! il risultato è di una morbidezza e di un profumo che raramente abbiamo masticato nella carne di maiale, è piuttosto la cottura che rende le cose un po’ “audaci”. Di nostro ci avevamo messo l’aumentare la dose: sette/otto costolette del carré e 4 chili abbondanti di sale, che sommato al peso della teglia faceva un bell’impegno da portare fino al forno, tanto più stando attente a non far scivolare la piramide di sale ancora poco saldata, e c’è pure da dire che lavoro non è finito lì…
petto d’anatra al vino cotto
Non si capisce bene perché il petto d’anatra lo si cucini così poco. è buono, veloce, diverso e pure facile, dunque? che gli manca? Ma poi, a pensarci bene, il perché lo si capisce al volo, se si considera quanto il petto d’anatra non sia facile da intercettare. Da Dario, il macellaio trentino molto volenteroso, lo si può ordinare e ne procura di eccellente, ma così ci vuole l’intenzione, e l’intenzione è metà della fatica. Invece, l’altro giorno, è capitato che in un supermercato fiorentino a cui sono affezionata in modo persino irragionevole, ne avessero un assortimento vertiginoso, in modalità sottovuoto, tante confezioncine tutte allineate in fila sul bancone. Non si poteva resistere e infatti… peccato solo che gli scarsi 350 g siano finiti a sfamare (anzi a stuzzicare l’appetito) di 5 commensali tanto che abbiamo finito tutti per leccare il piatto con le dita. La morale, forse, è che certe volte ci vuole pure l’intenzione…
pui pe sticla (pollo sulla, ehm, bottiglia…)
Allora, questa ricetta, e pure questa foto, meritano prima di tutto qualche premessa.
La prima volta che la faccenda del pollo sulla bottiglia ha cominciato a circolare tra le nostre orecchie è stato quando qualche mesetto fa un’amica carissima, Sara, ha visto a teatro uno spettacolo molto realista in cui la cucina rumena aveva un ruolo decismente preponderante. La cottura del pollo con la bottiglia aveva però lasciato aperto qualche dubbio: licenza da teatro dell’assurdo? trovata di un regista spiritoso? o tradizione autenticamente riportata sul palco? Non se ne sapeva abbastanza per provare, dunque è stato necessario che fosse un amico di origini transilvaniane (!), Mircea, a renderlo vero e possibile. A quel punto, istruzioni (a dire il vero poche…) e pure nome autentico (pui pe sticla, appunto) alla mano si poteva faare a meno di provarci? No. E allora ci abbiamo provato…