Il carnevale è una roba seria, al punto che divide come poche cose al mondo: chi lo ama lo adora, chi invece ne farebbe a meno sotto sotto (e a volte pure più in superficie) lo detesta. Io lo adoro, da sempre.
Eppure negli ultimi anni, dopo aver passato le ebrezze infantili, l’incertezza per prove ed errori dell’adolescenza e l’incanto di alcuni veri carnevali veneziani (prima che la festa smettesse di essere tale) mi ero rassegnata a fare quanto meno finta di niente. Poca voglia e poco contagio e la sensazione che qualcosa fosse perso per sempre: la luce che cominciava a diventare lunga, il freddo che pungeva ma il sole che illudeva, gli gnocchi in piazza, il gioco di giocare e abiti diversi. Tutto questo probabilmente si è effettivamente perduto, o forse è rimasto indietro come è normale che succeda anche per chi si ostina a viaggiare con bagagli troppo grossi, però oggi è stato bello ritrovare carnevale.
Un carnevale in parte sicuramente diverso, a tratti persino esotico, ma come mi succede per molte cose qui a Barcellona, insieme molto familiare e sorprendente. Ne racconteremo quando avremo finito di festeggiarlo e quando la macchina del fotografo avrà sputato fuori tutto quello che riuscirà a mettersi in pancia, a occhio e croce intorno al mercoledì delle ceneri che qui coincide con la celebrazione del funerale (e relativo interramento) della sardina nel parco della Ciutadela.
Oggi però, per essere in clima e in tempo, pubblichiamo il ritratto della protagonista dell’inizio del carnevale catalano, ovvero la butifarra d’uovo. Sì, sì, proprio così, una salsiccia (cotta) con l’uovo dentro, oltre che carne di maiale e molte spezie (in particolare noce moscata). Se la tradizione della butifarra è tipica di queste latitudini quella della butifarra d’où lo è nel tempo e nello spazio da tempi antichissimi (attestata nel 1600 si suppone però molto più antica). Si mangia per tradizione il primo giorno del carnevale assieme alla coca di lardons e ad altre sciocchezzuole molto leggere; per summa di autrenzialità poi la salsiccia con l’uovo si mangerebbe dentro la tortilla, ovvero uovo con uovo passando però per il maiale. Noi su questo ci siamo astenuti e l’abbiamo mangiata così, semplice, semplice…
capo di anno
e anche quest’anno ce l’abbiamo fatta. Anzi meglio degli altri anni, senza patemi, persino persino (quasi) senza agitation che-che ne dica il fotografo. Merito della chimica, quella sintetica, quella che evitiamo tutto l’anno e che però vuoi mettere come ge-la-ti-fi-ni-ca lei? altro che agar-agar, altro che colla di pesce (che poi di “naturale” avrebbe in effetti ben poco meno del nome), i vodka-jelly di quest’anno si potevano rovesciare all’ingiù ed avevan un saporino finto-fintissimo di ciliegia, anzi forse di amarena come ha detto qualcuno. Niente cucchiaini ovviamente solo le dita e poi trangugiare sorridendo ripensando un po’ a cose da bambini, un po’ a Caty che per prima ce li ha insegnati. I vodka-jelly sono in fondo una specie di caramellina alcolica, regressiva e agressiva al contempo, una cosa che probabilmente sarebbe piaciuta ad un’Alice un po’ cresciuta.
La ricetta di quest’anno dunque è sintetica a manetta, ma è soprattutto la scusa per fare gli auguri. L’anno è ancora piccolo, possiamo dunque ancora immaginare di farne tutto quello che vogliamo e che desideriamo. Auguri!
vodka-jelly
Qui è tutta una agitation! Un po’ di malattie, un po’ di guarigioni, un po’ di preparativi di partenze e di preparativi per grandi arrivi. Poi liste (molte liste), spese, zuffe, divisioni di compiti e piani d’attacco e di difesa. E perfino propositi (solo buoni). Insomma abbiamo tutta una mistica dell’agitation su cui abbiamo già un ampio curriculum.
Fra i divertimenti più agitati c’è la preparazione del vodkajello (parente più festaiolo del camparjello). La preparazione è agitata perché va fatta in fretta, in dosi da caserma, e perché azzeccare la proporzione di gelatina è questione di alchimia. Domani si ripete (una piccola dedica ad Adriana che ne va matta) e speriamo di imbroccarla anche stavolta.
sucettes glacées al lemon grass e ginger
Giusto quello che ci vuole. Arrivata a Roma notte-tempo, dopo roccambolesche avventure ferroviarie, trovo un clima mitigato rispetto all’intervallo -9 +1 registrato tra i monti, ma comunque piuttosto rigidino. Nel giardino del fotografo il basilico è definitivamente stecchito, pure la salvia tiene le foglioline strette e la menta romana anche quest’anno è kaput. Il frigo (serve dirlo?) riflette di biancore come una clinica svizzera e manda l’eco, insomma è vuoto, vuotissimo. Dentro si contano soltanto: un pompelmo residuo del pacco siciliano, un barattolo misterioso (è roba tua Marie?), due pezzi di burro (è l’influsso della nonna bretone), del vino bianco, stop. Apro il vano congelatore e trovo: un probusto immancabile risorsa nella dieta del fotografo, una specie di crema di limoncello fossilizzata di cui ignoro ogni origine e loro. I ghiacciolini/lecca-lecca di lemon grass.
Ora c’è da dire che il ginger provoca assuefazione, sicuramente in noi calycanti, ed in modo particolar a me che ne chiedo subito doppia dose quando andiamo dal giapponese. Questa ricettina qui era nella lista delle cose da fare da tanto, tanto tempo, da quando insomma il clima era ben più mite, ma poi una volta mancava il lemon grass (non di così facile reperibilità a Roma), un’altra il congelatore ci aveva piantato in asso, un’altra ancora era il fotografo a mancare. Stanca di tentennamenti Marie deve averlo depositato nel congelatore del fotografo prima di partire per Parigi ed oggi, proprio oggi è arrivato il suo momento. Sarà il mio pranzo assieme, manco a dirlo, a una scodella di riso bollito.
lo sciroppo per la tosse (home made)
La prima volta che ne ho sentito parlare è stato al banco della signora Fausta. Impigliata nel mal di gola e con un filo di voce residua compravo le mie verdure tossicchiando a secco, mentre lei, con la certezza delle faccende evidenti, diceva: ramolaccio, ci vuole il ramolaccio.
Sul banco quel giorno di ramolaccio non ce n’era, in compenso le spiegazioni erano circostanziate ed esaustive. Ciò non ha impedito che rimanessero ugualmente stipate in un angolo riparato della mente per tutta quella stagione e, attraverso le rimanenti tre, arrivassero confuse e svaporate fino al nuovo autunno. Di nuovo il freddo, di nuovo la tosse, di nuovo la voce sotterrata e di nuovo il banco della Fausta. Di nuovo le spiegazioni, di nuovo le raccomandazioni ma questa volta ci sono pure le rape nere, il ramolaccio.
A casa non rimane che provarci scoprendo che la cosa, almeno su Internet, è risaputa. Eppure a me maneggiare quest’ortaggio, medievale come nessun altro, mi fa pensare al 1300, al 1400 (al quasi 1500 di Non ci resta che piangere) al Gotico internazionale del ciclo dei mesi . La tosse poi, lentamente, è passata forse perché lentamente passa, ma vuoi mettere una ricetta del tutto naturale arrivata diretta diretta dal medioevo?
zenzero candito
Dopo la prima neve, anzi pure insieme, è arrivato puntuale come un treno asburgico il raffreddore, anzi meglio il male di stagione. Il fotografo si sveglia di notte battendo i denti (anche se sta a Roma), in Trentino nonostante la prima lana è ricominciato il mal di gola, mentre la Marie inanella litanie di starnuti su treni, aerei e tassì. Insomma quest’anno ci prendiamo per tempo e in tre non ci facciamo mancare nulla. E sì che non sarebbe esattamente il momento buono, visto che les filles sono in partenza per il Salone del Gusto (sabato, domenica e lunedì) mentre il fotografo è impegnato a “cucire” il vestito nuovo per il blog, che pure lui c’ha le sue esigenze di stagione.
Per corroborarci dunque abbiamo finalmente messo in cantiere (e in realtà è il secondo tentativo che il primo finì bruciato) lo zenzero candito, di cui siamo ghiotti tutti quanti. La ricetta è quella di Alice Hart, e rispetto a quello comprato il risultato è sicuramente più gustoso, più pizzicherino ma anche più duretto perché tende a cristallizzare. Il vantaggio secondario è che funziona benissimo per dolcificare e profumare il tè, il rimedio migliore dopo l’aereosol.
un hugò e qualche anticipazione
A dire la verità non è che sia chiaro se l’accento sulla “o” ci vada o pure no, ma è pur vero che a pronunciarlo si sente che la cadenza porta lì, e poi, questo è certo, fa più esotico. L’Hugò dunque, è un cocktail di ascendenza bolzanina (nel senso che è lì che lo si serve e lo si beve ovunque) a base di prosecco e sambuco, con qualche fogliolina di menta e spesso (ma non nella versione originaria che prevedeva zest di limone) uno spicchio di mela.
Quello che abbiamo fotografato qui è un po’ più meridionale, assemblato al ViaDante (Rovereto) e lì sorseggiato con grande soddisfazione. C’era infatti più di una ragione per brindare, portandosi avanti sugli eventi di queste ore e sulla prossima settimana.
Qualcuno, tramite il tam tam di facebook, ha già fatto in tempo a dargli una sbirciatina sulle pagine Food&Wine di Repubblica/L’espresso dove sono comparsi da qualche ora, ma a questo punto è proprio il caso di dirlo ufficialmente: dal 21 settembre fino al 30 ottobre alcuni dei “nostri” ritratti alimentari saranno in mostra da Kitchen in via De Amicis 45 a Milano. Tra questi ce n’è pure uno inedito, di ritratto, che “sveleremo” lunedì, per intanto la sottoscritta corre a chiudere una valigetta per il suo week end altoatesino tra terme e Hugò (…mentre Marie e il fotografo restano a lavorare…).
croccante di …
La notizia l’aveva riportata il fotografo da Barcellona, robe esotiche che si trovano e si mangiano solo lì, ideuzze forse banali dopo che qualcuno ci ha pensato, però carine, così carine…
Ovviamente il fotografo, nella valigia mingherlina che imbarca e sbarca tra l’Italia e la Spagna, si è guardato bene dall’includere non tanto un campione, ma quanto meno qualche dettaglio e così per replicare ci siamo mossi a occhio.
Il croccante in sè era facile: nocciole e mandorle (2/3 e 1/3), tritate però non troppo fini.
Per la “colla” invece si è posto il problema: caramello o miele? poi visto che volevamo una copertura uniforme e consistente, ci siamo buttati sul primo.
La faccenda più difficile (a parte farsi le trecce per giocare nella foto) è stato scegliere il formaggio, sì perché questa cosina con lo stecco è un croccante di formaggio, una specie di Magnum caseario. E scherzi e giochi a parte il risultato è delizioso, provare per credere: si torna bambine, trecce comprese.
chips dolci alla liquirizia
A dirla tutta l’idea di queste chips è un collage e un racconto a più mani. La storia inizia qualche settimana fa a Roma quando mangiando all’open baladin in una serata un po’ burrascosa non siamo riusciti a goderci fino in fondo l’idea (e il sapore) di chips faites maison condite con sale alla liquirizia. Ma il pensiero era rimasto lì. Così quando Virginia, sempre qualche tempo fa, ha postato delle chips di patate dolci abbiamo messo le cose insieme e siamo andati al mercato. Le patate (o batate) erano quelle a pasta arancione, quanto alla liquirizia era quella pura, calabra, a pezzetti chiusi in quelle scatole di latta che qualche volta finiscono dimenticate nelle tasche dei cappotti o sul fondo delle borse di stagione. La liquirizia l’abbiamo messa nel mortaio, mescolata a sel de guérande e macinata con cura, sulle patate ci stava una meraviglia e poi vuoi mettere la soddisfazione di trovarsi in bocca dolce (l’arncione), salato (il bianco) e amaro (il nero)?
bibita al melograno
Messa li fra le bottiglie della riserva personale ha un aspetto a metà tra il velenoso e il frivolo. Roba da ragazzi, qualcuno direbbe perfino da femmina! roba da merende sull’erba, roba primaverile, roba smielatamente romantica. Ma chissà poi perché tocca propria a me scriverne. Ho già un po’ di prurito. Immaginiamo Maigret che batte la manona sul bancone di zinco e chiede all’oste, Oggi una bibita al melograno. Assurdo! qui va immaginata tutta un’altra situazione, è roba da poeta arabo-amdaluso, da fanciulla seduta sull’erba nei giardini dell’alcázar circondata dagli aranci in fiore, roba tremedamente romantica, profumo inebriante e freschezza di primavera. blee, per fortuna che domani sono in spagna e posso rifarmi con ben altri nettari (pursempre andalusi) e fortuna, soprattutto, che le cuoche sono partite per un seminario di pastiera napoletana a napoli e che quindi, per una volta, non avranno da ridire.
creme caramel alla liquirizia
Quando qualche mese fa si era trattato di ritrarre la passione di elena-comida per il caffè, la ricetta che istintivamente le avevamo dedicato era un gioco di sostituzioni (e di parole) che prevedeva di mettere il caffè al posto del latte in una crème caramel (o latte portoghese) che Zenone Benini (a cui ci eravamo ispirati) chiamava caffè/latte in forchetta. Con la passione di laura, giochiamo un po’ sullo stesso principio lasciando il latte al suo posto ma mettendoci in infusone gocce di liquirizia dura e ancora qualche traccia sul fondo della tazza imprigionata nel caramello. L’effetto/liquirizia così va accentuandosi man mano che si affonda con il cucchiaino, ma la semplicità di esecuzione resta la stessa.
collana di salamini al prosecco, flambée al rum
Ecco che fine ha fatto la collana di Alex. Evvabè, la colpa è un po’ del raffreddore-influenza che, si sa, lascia il frigo vuoto, un po’ del freddo, un po’ del fatto che maite è partita (e pure lei ha avuto le sue disavventure glaciali), un po’ di una una chiacchiarata telematica in cui ho scoperto che una certa combriccola è stanotte al bar della “orejilla”, un antro malfamato nell’entroterra barcellonese, a mangiare callos (trippa) e chorizo. E così, preso da nostalgia, freddo intenso e una certa fame (dopo due giorni di brodini) trasformo le salsiccette di Alex in chorizitos alla cubana! Con contorno di patate al forno,
gelatina di canarino
No, no i canarini, quelli gialli, intesi come uccellini spesso tristi in gabbietta, non c’entrano niente. Però, a ben guardare, qualcosa di un po’ estremo in questo esperimento in effetti c’è, qualcosa giocato sulle consistenze e per di più sulle consistenze del quasi-niente. Il canarino, o acqua-bollita, come si chiama da secoli a casa di Maite è fatto d’acqua (appunto), bollita (appunto!) con alloro, scorza di limone e zucchero a piacere, rimedio digestivo contro ogni ingolfamento da troppo pieno, ma pure da tensione nervosa con interessamento gastrico, insomma rimedio contro ogni male tanto che il nonno Michele (bis-nonno o nonno-grande come si dice con rispetto in Sicilia) ne chiedeva una tazza anche in caso di mal di piedi. Il problema è che l’acqua bollita, che pure eravamo già riusciti a infilare nel pdf detox, è calda. Calda per definizione, poco invitante in estate e per di più così evanescente. Dunque l’idea è stata diamole corpo e freddo, aggiungiamo 2 g di agar agar (che pure lei, pare, ha poteri digestivi) e passiamola in frigo. Il fotografo manco a dirlo era scettico, ma così è stato fatto…
granitina di tè verde
Sul nome di questa cosina fresca fresca, di temperatura, di sapore, di aspetto pure c’è stata qualche diatriba. Granita, per Marie e il fotografo, manco per niente (o come direbbe Marta: No way!), per Maite che in queste cose sente il richiamo delle origini parentali… sì perché in Sicilia la granita è una cosa del tutto diversa, cremosa, ben amalgamata, senza il che minimo accenno di giaccio, una goduria da colazione in cui intingere una brioche apposita con il cappuccio. Questa granitina però ha tutto il suo perché nel piacere infantile del ghiaccetto tritato che lascia in bocca un gusto profumato, dolce appena appena, insomma un tè per bambine eccentriche che giocano uno speciele bonheur des dames in un giardino d’estate.
campargello futurista (ovvero gelatina di campari)
ZANGTUMBtumBTUuuuuM
TUuuuMclipcloPPeteCLOPcloop
Allora, allora.. non è che ci siamo ammattiti, né che abbiamo aperto davvero la taverna calicanti, né tantomeno che abbiamo ricevuto una lauta sponsorizzazione dalla Campari, diciamo piuttosto che questo post-futurista è il frutto di un concorso di cause.
In primo luogo in questi giorni a Rovereto ha riaperto, dopo lungo restauro, la casa del mago, cioè il luogo dove Fortunato Depero aveva allestito la traccia sostanziosa del suo percorso artistico in stretto legame con la città. Tra arazzi colorati, marionette per i balli plastici e bozzetti di ogni genere i manifesti dedicati al Campari abbondano e al fotografo già girava la testa.
Solleticati dalla visita abbiamo finito per mettere le mani in certe scatole di ricette e di ritagli e sono saltate fuori fotocopie di piatti improbabili messe via molto tempo fa per un ardito aperitivo futurista: carnepalstico, polibibite, apparizioni cosmiche e atterraggi digestivi il tutto confezionato in formule firmate da Marinetti, Fillia, Caviglioni per combattere “il quotidianismo mediocrista dei piaceri del palato“.
A quel punto era già tardi, la fantasia eccitata, l’immaginario acceso, dunque qualcosa si doveva pur fare…
…ma poi, dopo aver scovato in rete questa esecuzione deliziosa di una formula futurista tra le più famose, ci siamo chiesti se davvero volevamo essere letterari… e chi se lo mangiava il carneplastico virile nella forma e nella sostanza?
Meglio pensare a un’interpretazione (non a una citazione diretta!) ed è così che si è “addensato” il campar-gello, vale a dire campari in gelatina, con un piccolo profumo aggiunto che rende più delicata la ricetta, anzi la formula…