Quest’anno è stato quasi un tormentone: il budino miracoloso di cachi, fatto solo con frutto maturo e un cucchiaio di cacao amaro, pareva troppo bello per essere vero.
Toccava provarci, soprattutto perché il Fotografo, con la sua dieta intransigente non tollera praticamente nulla ma rimpiange parecchio, anche se non lo dà (troppo) a vedere.
Dunque ci abbiamo provato, e la prima volta è stato un disastro. Distratta e anche un poco scettica ho spellato il caco e ovviamente, la cosa non ha funzionato (è infatti la buccia lapposa del caco che funziona come addensante naturale..). La seconda volta ero concentrata, ma in quel fine settimana il Fotografo aveva già fatto fuori frullatore, minipimer e macinasemi in una volta sola, dunque ho tentato di “frullarlo” con la frusta del Kitchen aid…. inutile dire come è andata.
La terza volta ha funzionato. Frullatore nuovo qui a casa a Rovereto, buccia inclusa e 1 cucchiaio e mezzo di cacao in polvere. Tutto qui, consistenza perfetta già nel frullatore. Un’ora di riposo ed era pronto.
Miracoloso quindi, ma ti devono piacere i cachi, e questa è un’altra storia.
La ricetta
1 caco maturo, lavato e con la buccia 1 cucchiaio o 1 cucchiaio e mezzo di cacao in polvere + 1 frullatore
Lavate il caco, eliminate il picciolo e tagliatelo in grossi pezzi con tutta la buccia. Versate nel boccale del frullatore, aggiungete il cacao e frullate fino ad ottenere una crema omogenea e corposa. Versate nelle forme e aspettate che si solidifichi (a me non è servito il frigorifero). Al momento di servire, se vi piace, aggiungete una spolverate di cannella.
La prima volta che l’ho adocchiato nel menù di merende della granja della calle Pallaressa, qui a Barcellona, ho pensato che mi prendessero in giro.
Il Bincomangiare (cioè il mangiarbianco al contrario) è una cosa siciliana, una cosa della mia infanzia e ancora di più di quella della mia mamma! Che ci fa a Barcellona?
Forse quella è stata la prima volta, ma di certo non l’unica e non l’ultima. Anzi è successo spesso, e spesso (ma non solo) con i dolci… ma come? ma queste non sono le ‘ngiambelline delle zie di Caltagirone? e queste non sono le pastine da tè che portava la zia Concettina dalla nonna ad ogni visita? Tra la Catalunya e la Sicilia ci sono molte cose in comune, che forse sono transitate per la corte aragonese, per la tradizione dei dolci conventuali o per l’influenza ugualmente forte della cultura araba e dei suoi profumi.
Fatto sta che il manjar blac è dolce tradizionale, anzi tradizionalissimo qui in Catalunya , così come in Sicilia. Ha una chiara origine medievale ma è ancora vispissimo, anche se, proprio come succede anche in Sicilia, oggi prevalgono le versioni con il latte vaccino e la farina di riso. Forse per colpa della cura che richiedono le mandorle, ma a me sembra che non ci siano paragoni.
Prendetevi la briga di partire dalla preparazione del latte di mandorla (che per altro con il frullatore si fa in un minuto), di metterci i giusti profumi e vedrete che il mangiare bianco o il bianco mangiare, per quanto medievale sia, non ha smesso di dire tutto quel che ha da dire.
Noi lo abbiamo rifatto per Sant Jordi, modificando un poco la ricetta del nostro libro delle merende a Barcellona (se no che gusto c’è?) ed è finito dritto dritto nel libro che il Fotografo ha cucito assieme ad altri talentuosissimi instragrammers per onorare la festa dei libri e delle rose, che quest’anno abbiamo trascorso alla finestra.
Ne volete una copia? sbirciate in instagram e scoprirete come.
200 g di mandorle 500 ml di acqua (più o meno) 25 g di amido di mais o di frumento 80 g di zucchero la scorza di un limone non trattato cannella (facoltativo) acqua di rose (facoltativo)
Con l’aiuto del frullatore, o anche del minipimer, frullate le mandorle assieme all’acqua. Lasciate quindi riposare il composto in frigorifero per una notte. Al mattino filtrate attraverso un colino a maglie fitte, o meglio ancora attraverso una garza di cotone. Otterrete un profumato latte di mandorla. Raccoglietelo in un pentolino tenendone mezza tazzina da parte. Aggiungete lo zucchero, la scorza di limone e se la usate la cannella, portate al primo bollore quindi spegnete. Nella tazzina con il latte di mandorla tenuto da parte mescolate l’amido e aggiungete se vi piace un cucchiaino di acqua di rose, mescolate bene per evitare grumi quindi versate nel pentolino. Mettete sul fuoco dolcissimo e mescolando con grande attenzione fate addensare. Versate negli stampi e lasciate raffreddare.
Qui c’è da gridare al miracolo. E infatti c’è chi da anni l’ha scoperta e la prova e la riprova, noi qui, che siamo un poco lenti su certe cose, ci abbiamo messo il nostro tempo e l’acquafaba l’abbiamo “scoperta” davvero poco, anzi pochissimo tempo fa.
L’acquafaba altro non è che l’acqua di cottura dei ceci, o acqua di governo, come si diceva con un termine così desueto che mi ha sempre affascinato.
Qualche settimana fa, quando ancora si usciva e tutti questi giorni non erano immaginabili nemmeno dalla più distopica delle immaginazioni, mi ero decisa. Dietro al mercato di Santa Caterina c’è un negozietto piccolo, piccolo di quelli che stanno lì da tutta la vita (e che speriamo di ritrovare lì, dove stava…), ci vendono solo legumi cotti (e crudi): arrivano in ciotoloni fumanti e c’è sempre la coda per portarsene a casa un cartoccio triangolare che scalda le mani. Costano poco, sono buonissimi, comodissimi e cotti con una perfezione che io non sono in grado di raggiungere, per cui spesso mi fermo (nonostante la coda…) e aspetto pazientemente il mio turno, sbirciando la libreria per bambini che sta difronte ed ascoltando le hit anni Ottanta che arrivano assieme al fumo dalla piccola cucina sul retro. In genere compro cigrons (ceci) o mengetes de santa Pau (fagioli tipo cannellini). E l’ultima volta, propio l’ultima volta che ci sono stata, sporgendomi sul bancone nell’idioma ibrido mezzo catalano, mezzo castigliano e molto italiano che uso qui ho chiesto che mi dessero anche un poco del brodo di cottura. Naturalmente non mi hanno capita, meno male che brandivo un barattolo di vetro vuoto come ho visto fare alle signore qui, e questo deve essere bastato. Son tornata a casa con i miei ceci e l’acqua di cottura.
Avevo le idee chiare ma dubbi molti. Non monterà, e invece…
Prendete l’acqua di cottura ben fredda di frigo, aggiungete un paio di gocce di limone e otterrete questa cosa qui:
Da lì in poi decidete voi cosa fare, ma per me mousse al ciccolato è la risposta. Soprattutto di questi tempi.
Non troverete che vantaggi: cuocerete i ceci a casa, non butterete l’acqua e mangerete una mousse che in fondo non ha bisogno di nulla, per me nemmeno di zucchero. Senza un grammo di senso di colpa.
La ricetta
200 g di cioccolato fondente (per me 81%) 140 g di acqua faba fredda di frigo 1 cucchiaino di succo di limone
Nota preliminare: Se volete andare sul classico ricordatevi di cuocere i ceci senza aggiungere sale (a casa nostra viene facile perché il Fotografo ha eliminato il sale) e in acqua molto abbondante, in modo che ve ne rimanga quando i ceci saranno pronti. Se invece salate l’acqua non disperate, la prima volta ho usato acqua faba salata e a me quel punto di sale nella mousse al ciccolato piace. L’acqua deve comunque essere abbondante. Ovvio. Filtratela e conservatela in frigorifero.
Sciogliete il ciccolato a bagnomaria e lasciate che si intiepidisca. Montate l’acqua con il succo di limone alla massima velocità con la planetaria o anche con le fruste elettriche, abbiate fiducia e vederete che monterà. Incorporate poco per volta il cioccolato con una spatola, muovendo dal basso verso l’alto. Quando avrete ottenuto un composto omogeneo sistemate nelle tazzine, nei bicchieri o dove volete e conservate in frigo per almeno un paio d’ore.
Di certe ricette facciamo bene ad avere paura. Del praliné, ad esempio, per qualche strana ragione io ho sempre avuto timore, convinta che fosse un esercizio di masochismo provare anche solo a pensare di farlo in casa. Ma mi sbagliavo.
La prima volta che l’ho sentito nominare veniva dalle parole piene di seduzione di comida de mama. Mi vergognavo un poco di non sapere che fosse e nello stesso istante scoprivo di possedere (inconsapevolmente) una collezione ragguardevole di ciotoline, coppette, bicchierini e bicchierozzi perfetti per il trifle.
Da allora non l’ho mai dimenticato, qualche volta l’ho praticato, ma soprattutto ho saputo che titolo dare a certe “invenzioni” dell’ultima ora che combinano il non-c’è-niente-per-dolce con l’ultimo appello per la frutta (quasi) dimenticata in frigo.
Le riz au lait fa parte della merenda di molti bambini francesi e non solo: cambia il nome, a volte di poco la ricetta e certamente la provenienza del riso ma per il resto la tradizione è la stessa in Spagna e anche in Portogallo.
Qui a Barcellona fa parte del menù delle Granjas, ovvero di quella specie di latterie che sono dedicate alla colazione e alla merenda, in buona compagnia di churros, magdalenas, mel y matò e altre coccole regressive, ma per Marie sono Francia senza se e senza ma.
Tocca crederci al destino. A volte vive nella biforcazione di un incrocio, sulla soglia mancata o varcata di un soffio, nello sliding doors quotidiano di ognuno, o nel numero prossimo che il caso ci assegna nella pancia dell’aereo. E proprio così nel pendolarismo tra andata e ritorno, tra Roma e Barcellona, tra una casa e un’altra casa abbiamo incrociato (giusto un anno fa!) il destino di Giulia e quello seduto accanto di Luis. Sono diventati un po’ la nostra famiglia catalana (beneché di catalano in effetti non ci sia nessuno), con cui dividiamo la cena del fine settimana e quello che apparecchiamo per lavoro o per piacere, quasi sempre per tutte e due le cose.
Hanno mangiato quasi tutte le puntate del nostro Allacciate i grembiuli sul Corriere della Sera, spaziando con disinvoltura dalla zuppa confortante di Terlano (la preferita di Luis) agli esperimenti più azzardati, compresi quelli che non saranno mai pubblicati. Insomma digeriscono tutto, come succede nelle migliori famiglie.
Ma Giulia, che è giovane e poliglotta, ha la sua cucina in mano, con radici sicule (ah le coincidenze!), sguardo russo (ah l’amore!) ed estro vegetale con inclinazione vegana (e qui sospetto che c’entri il suo lavoro ma anche la sua età). Morale ci ha portato in casa questo miracolo a cui stentavo a credere: una mousse al cioccolato totalmente vegana e per nulla punitiva.
Capita in un pomeriggio di gnocchi (sì, sì quelli classicissimi che si amministrano di giovedì e che invece noi abbiamo rimandato a un sabato romano giusto così per inaugurare la cucina…) che mentre le patate cuociono sulle piastre nuove e sibilanti ci si dica con innocenza: ” e se facessio un dolcetto?” Certo, e che ci vuole! Solo che il forno sta lì, ma deve ancora essere imbullonato, la dispensa è così colma di piattini, tazzine, bicchieri che di cose da mangiare ce ne sono ancora poche, per non dire pochissime.
E allora sedute con i gomiti sul tavolo si comincia la litania: i biscotti di Elena tocca rimandare, quella torta che è in lista da sei mesi pure anche, l’ultimo numero di Saveur meglio non guardarlo nemmeno, finché Marie si fa rossa di intuizione: ti ricordi quella crema pasticcera senza latte a Identità? Eh certo, giusto, la crema, sì facciamo la crema, come quella della mamma, ma visto che il gioco è giocare, mettiamoci qualche variazione, così togliamo il lattè e mettiamo il tè.
Si sa che le mamme sono inventive, specie quelle dei cow-boys. Così come ricetta alla ricotta dedicata a Gregorio abbiamo deciso di essere letterali e di scegliere proprio quella che gli prepara la sua mamma e che a casa sua, nel loro lessico perfettamente familiare, si chiama budino al cioccolato.
Trattasi di ricetta semplicissima, ma furba e ghiotta che si fa un minuto ma intenerisce e coccola anche il più duro giovane eroe del selvaggio WEst.
Sono giorni in cui la testa un po’ gira. Sarà il caldo (finalmente), sarà una (piccola) collezione di chilometri, saranno soprattutto certi shock climatico-geografico-culturali che trasportano dalle valli trentine misurate in bicicletta (vero papà?), alla laguna veneziana trascorsa in bragozzo, fino all’agrumeto siciliano calpestato quasi a piedi nudi. Bello, certo. Ma la testa gira un po’. Soprattutto che tutti questi trasbordi coprono il tempo risicato di una settimana e, cosa ben più stupefacente, un’unica, minuscola valigia.
Cosa riportare indietro dunque? La testa che gira, si è detto, poi il calore e tanti ricordi nella settimana che, per tante e insieme una sola ragione, è nella mia vita la più difficile da attraversare. Mentre mi/ci spostavamo qualcosa è andato a fuoco, “le cavallette” sono andate a caccia di tesori, è fiorito il gelsomino, un’amica ha compiuto gli anni e, soprattutto, è nata Sofia! Nell’attesa di conoscerla dal vivo, proviamo a dedicarle questo gelo di mellone che lei è troppo piccola ovviamente per mangiare e noi troppo lontani per farle assaggiare, ma che condensa in colore, consistenza, dolcezza un po’ del suo mondo.
Questo gelo di mellone non è soltanto siciliano, anzi sicilianissimo, ma ha tutta una sua storia di amore ziesco, incrociato, rimbalzato e potenziato.
Zia Graziella si è proposta per cucinarlo mettendo insieme gli stampi di nonna Lella e nonna Pina, zia Sara consultata su certi delicati passaggi ha dato apporti e suggerimenti decisivi, alla fine tutto si è addensato alla perfezione: il gelo era compatto e dolcissimo…
È già passata qualche settimana da quando il fotografo è passato per la Catalunya e prima che scappi di nuovo è bene che lasci un piccolo segno perché poi possa ripartire senza rimorsi. Qualche santo da festeggiare (mangiando) c’è sempre, e aspettando sant Jordi ricordiamoci di sant Josep, (Giuseppe, 19 marzo)
appena passato e dedicatario non dei bignè ma della Crema Cremada (in poche parole la Crema Catalana).
Ecco allora nella foto tutti gli ingredienti per una tavola domenicale in qualche “Can..” della Catalunya profonda, e non solo di 19 marzo: la crema, il pane tostato per l’aglio e il pomodoro, il porron con il becco per bere “a canna” (il vasetto di alioli c’era, giuro, ma prima del dolce il cameriere l’ha portato via!).
Sapori belli forti! E anche la crema (cremada=bruciata) pur condividendo il nome è un po’ più tosta della sorella francese (crème brulée), non si cuoce a bagnomaria, non si usa la panna ma solo latte, non si usa vaniglia ma limone e cannella.
La mousse di oggi, nata nei laboratori calicanti delle nevose soffitte trentine e arrivata a roma sul freccia rossa delle 20.45, per chi volesse, si potrebbe quasi assaggiare in diretta. Anzi, senza quasi! se siete a roma e passate per il centro all’ora di merenda, un bicchierino di mousse lo trovate: consideratelo un invito. Sarà uno dei piccoli assaggi che offriamo, insieme a Baicr e Università di Tor Vergata per l’inaugurazione del master in Cultura dell’alimentazione, di cui abbiamo parlato ieri. Attenzione: bicchierini limitati!
Due dolci di fila.. Sì, perché se è vero che su queste pagine di dolci se ne vedono relativamente pochi_ni, è vero pure che qundo ci vuole ci vuole! Non è tanto, o solanto, che siamo in attesa del carbone nella calza della befana (dimenticandoci per quest’anno, ma solo per questo! della tradizionalissima galette des rois), ma è soprattuto che saremmo in attesa di un certo attesissimo regaluccio che il fotografo starebbe finendo di “impastare” con le sue manine… Così ci sforziamo di essere buone, e pure dolci, sperando che domani sera, o magari nella notte, si avvisti finlmente il pdf di gennaio che si annuncia un po’ speciale. Nell’attesa galleggiamo a vista su queste iles flottantes profumate al mandarino che ricordano parigi e che spennachiatte di caramello danno pure una mano a curare il mal di gola. Qundo si dice che l’attesa (e pure il naufragio) non son dolci….
Quando qualche mese fa si era trattato di ritrarre la passione di elena-comida per il caffè, la ricetta che istintivamente le avevamo dedicato era un gioco di sostituzioni (e di parole) che prevedeva di mettere il caffè al posto del latte in una crème caramel (o latte portoghese) che Zenone Benini (a cui ci eravamo ispirati) chiamava caffè/latte in forchetta. Con la passione di laura, giochiamo un po’ sullo stesso principio lasciando il latte al suo posto ma mettendoci in infusone gocce di liquirizia dura e ancora qualche traccia sul fondo della tazza imprigionata nel caramello. L’effetto/liquirizia così va accentuandosi man mano che si affonda con il cucchiaino, ma la semplicità di esecuzione resta la stessa.
Quando, leggendo sul retro delle confezioni di gelatina in fogli che alcuni tipi di frutta (kiwi e ananas i più citati) non sono gelatificabili, più di una volta un brivido di incertezza ha corso velocemente lungo i derrapage di dubbi che sempre accompagnano l’esercizio (il nostro…) delle proporzioni. Così in genere mentre ci si strugge per capire se per 2,5 dl ci vogliano 4 g in 2 fogli (perché se x:Y=Z:w o forse viceversa…), la questione frutta gelatificabile sì o no, finisce per essere accantonata. Poi però in un pomeriggio domenicale in cui ci si trovano tra le mani due melograni così rossi di soddisfazione da non poter essere ignorati, si partoriscono progetti sperimentali che strada facendo si trasformano da soli. L’idea era semplice, qualcosa come budino, pannacotta, bavarese o gelatina di melograno con una reminiscenza pure di charlotte, almeno nel decoro. Procede tutto facilmente (a parte il rimpianto per non avere la centrifuga) solo che poi in fase di solidificazione il succo di melograno scende giù, abbandona la panna e si corica sul fondo del bicchierino gelatificandosi a modo suo. Ci vorrebbe Dario Bressanini e la sua scienza in cucina per spiegare il fenomeno, noi lo abbiamo osservato un po’ passivi, ma sorpresi che il dolce si fosse fatto da solo e per di più molto bene. Coprendo la superficie di chicchi, infatti, si affondava il cucchiaino in una specie di melograno farcito in tre strati di consistenze e sapori: granuloso-fresco-acidulo, pannoso-cremoso-dolce, aspringno-vellutato-morbido…. Inutile dire che a volerlo fare a posta non sarebbe mai uscito!
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