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Pesto di fave, piselli e avocado

La primavera tarda ad arrivare. Ma noi facciamo il tifo, anche se con il maglione di lana grosso che qui a Barcellona dura di solito pochi mesi.

Ma visto che il verde al mercato c’è già tutto lo abbiamo messo in un pesto facile facile e tutto a crudo per non perdersi niente del verde delle vitamine e delle promesse.

300 g di piselli freschi piccoli
400 g di fave fresche piccole
1 avocado
il succo di mezzo limone
un mazzetto di menta fresca
acidulato di umeboshi (facoltativo)
olio extravergine di oliva

pistacchi non salati per guarnire (facoltativo)

Con pazienza sbucciate i piselli e conservateli da parte, con ancora maggior pazienza sbucciate le fave e togliete anche la prima pellicina. Se avete a disposizione piselli e fave piccoli limitatevi a questo, se invece fossero un poco più grandi niente paura! immergeteli in acqua bollente salata per 1 minuto quindi prelevateli con la schiumarola e immergeteli subito in acqua fredda con ghiaccio.
Sbucciate l’avocado, lavate a sciugate la menta. Versate tutto nel boccale del minipimer e frullate aggiungendo il succo di limone e l’olio a filo fino ad ottenere la giusta consistenza. Regolate di sale, oppure dosate l’acidulato di umeboshi.

Potete completare con granella di pistacchi.

Serve egregiamente per condire la pasta, ma funziona a meraviglia spalmato sul pane, in accompagnamento a riso nero o a quinoa e persino per un pinzimonio rinforzato.

Insalata siciliana ma pure un poco andalusa

Qui a Barcellona la primavera ci fa soffrire. Quest’anno piove da un tempo così lungo che non ne ho più memoria e tutto è così in ritardo che ho persino voglia di fare il cambio degli armadi. Mi pentirò di averlo detto non appena ci dovrò mettere mano, ma per ora lana, cappotto e arance.

Questa insalata che è un classico assoluto in Sicilia ha mille varianti, ma si declina quasi sempre con finocchio e olive nere. Potete aggiungere prezzemolo, pepe nero e se vi piace l’idea anche filetti di aringa o cipolla rossa. Poi siccome tutto il Mediterraneo è paese e le parentele tra la Sicilia e la Spagna sono cose di sostanza ho scoperto che in Andalusia si fa uguale, ma con il baccalà crudo e qualche volta con l’uovo sodo.

Qui trovate dunque un appunto da cui partire, se avete ancora arance a disposizione scegliete la vostra rotta, altrimenti appuntatevela per quando torneranno fresche nei banchi dei mercati.

La ricetta
4 arance
1 finocchio grande
(succo di limone)
+
tocco sapido (ad esempio olive nere, o feta come nel nostro caso)
cipolla (cipolla rossa, oppure porro, oppure cipollotto fresco)
+
pesce in conserva (aringa o baccalà, ma in questo caso evitate il tocco sapido se non volete bere tutto il giorno…)
+
erbe aromatiche (prezzemolo, coriandolo fresco, oppure come nel nostro caso fiori di calendula)

Per condire:
Olio extravergine di oliva
aceto e sale (oppure acidulato di umeboshi)

Tagliate le arance, se volete essere sofisticati pelatele a vivo (ovvero eliminate con un coltello affilato tutta la buccia intaccando anche la pellicina bianca, quindi sempre con il coltello ricavate gli spicchi seguendo le nervature dell’arancia… è un poco faticoso e complicato da spiegare ma in questo modo otterrette degli spicchi privi di pellicina). Se, come nel nostro caso, avete arance bio e sanguigne che vi sono costate un occhio, potete tagliarle a rondelle fini tenendo anche la buccia (sono più complicate da mangiare però più estetiche).
Lavate i finocchi, eliminate lo strato più esterno quindi tagliate a fettine sottili, immergndole man mano in succo di limone.
Affettate finemente i porri (o le cipolle).
Montate quindi il piatto cominciando con i finocchi, quindi le arance, poi olive nere o feta o aringa o baccalà, completate con la cipolla, le barbe verdi del finocchio e condite.

cheese cake al labné

Il labné fa parte dei nostri confort food da tempi immemorabili, da quando il coinquilino palestinese di un amore veneziano lo preparava agganciando la federa al rubinetto della vasca. Da allora lo abbiamo preparato in mille occasioni, migliorando la tecnica ma con lo stesso spirito. Qui trovate la nostra versione montata che è una delizia senza mezze misure, provate e vedrete.

Ma Marie, che una ne pensa e dieci ne fa si è lanciata a immaginarne una versione a torta salata, seguendo il principio della cheese cake, aggiungendoci però un punto di colore.

Il principio è semplice ed è tutta la ricetta, preparare una base salata, fatta di grissini integrali e nocciole tritate con un poco di burro giusto per compattare. La base, come per ogni cheesecake che si rispetti, riposa in frigo per qualche ora. La parte superiore è fatta di labné montato, un poco di succo di melograno per dargli un tocco di rosa fané ed un foglio di gelatina, precedentemente ammollato in acqua.

Ingredienti


per uno stampo da circa 18 cm

per la base:
50 g di nocciole tritate
150 g di grissini integrali
60 g circa di burro

per il ripieno:
500 g di labnè montato
4 cucchiai di succo di melograno
2 fogli di gelatina da 2 g (4 g in tutto)

Per il labné (o labhneh) montato:
la ricetta è qui:
http://lacucinadicalycanthus.com/?p=12616

Tritate i grissini aggiungete le nocciole e quando il tutto sarà ben amalgamato il burro sciolto. Versate il composto sul fondo di uno stampo a cerniera foderato e livellate con il dorso del cucchiaio fino ad avere una base omogenea. Infilate lo stampo in frigorifero e dedicatevi al ripieno.

Mettete in ammollo i fogli di gelatina in acqua fredda, per circa 10 minuti. Nel frattempo ricavate il succo del melograno cercando di non ridurre la cucina a una scena splatter… raccogliete 4 cucchiai di succo in un pentolino, agggiungete due cucchiai di acqua e unite la gelatina strizzata, fate scaldare a fuoco dolce finché la gelatina non si sarà completamente sciolta. Lasciate intiepidire quindi unitela al labnè montato, incorporandola perfettamente.
Versate quindi nello stampo, livellate e lasciate riposare in frigorifero per qualche ora.

Noi lo abbiamo decorato con lo zaatar che è l’accompagnamento perfetto per il labné e con l’origano siciliano che piace tanto al Fotografo.


Nota: potete variare un poco la quantità di succo di melograno per un colore più inteno e anche la quantità di gelatina se volete una consistenza più soda.

Zuppa fredda di crescione

Succede ogni anno al rientro: la casa è rimasta chiusa più di un mese, a volte due, le piante hanno sofferto e il frigorifero è vuoto.

Arranchiamo allora le prime ore, contenti di scovare riserve insperate (una scatola di sardine del viaggio in Portogallo, un fondo di riso integrale, un barattolo di olive…) e amministrandoci con parsimonia le cose che abbiamo riportato in valigia, stipate in ogni spazietto, a volte quasi inventato.

Poi facciamo la spesa sulla scia delle voglie, ma qualcosa scappa sempre fuori in una casa rimasta disabitata e così capita pure che ti immagini una zuppa fredda di cetrioli e ti dimentichi i cetrioli.
La zuppa in questione era questa, semplice, facile e salutista, visto che abbiamo ovviamente ritrovato anche i buoni propositi di settembre, assieme al solito brusco calo delle temperature.

Poco male, cenare bisognava pure cenare e dunque aprendo il cassetto delle verdure nel frigo si è scoperto che non c’erano i cetrioli ma c’era il crescione.

La cosa valga di promemoria: il verde spesso si può intercambiare con un verde diverso. Se non sono cetrioli è crescione, se non è crescione potrebbero essere spinacini teneri (e ben lavati), rughetta, portulaca, magari pure un avocado.

Insomma questa più che una ricetta è una traccia.

La ricetta (o la traccia) x 2 persone

2 tazze di crescione (o di spinacino, o di rughetta o anche 1 avocado)
tre rametti folti di menta fresca
la scorza di mezzo limone non trattato possibilmente verde
1 spicchio di aglio
origano
200 g di yogurt (vegetale o di capra)
4 cucchiai di olio extravergine di oliva
acidulato di umeboshi (o sale)

Nel boccale del frullatore raccogliere lo yogurt, l’olio, l’aglio, la scorza di limone e il crescione. Cominciare a frullare a bassa velocità aggiungendo poca acqua fredda, quando comincia ad essere ben emulsionato aggiungere la menta e l’origano (a piacere). Regolare con l’acidulato di umeboshi o il sale e conservare in frigo almeno un’ora prima di servire.

Nota: potete tenere la zuppa più o meno consistente aggiungendo poca acqua fredda alla volta. Se non usate l’acidulato di umeboshi ma il sale, potete aggiungere un cucchiaio di succo di limone.

Labneh montato

Era nella cena del mio complenno due sere fa, e in generale non manca praticamente mai quando a tavola siamo più di quattro.

Si fa da solo, con soltanto un poco di premeditazione, quella sufficiente a ricordarti di mettere lo yogurt a scolare la notte prima.

Ed io così ho fatto sempre. Praticamente ogni estate da quando vidi un amico palestinese del mio amore di allora metterlo a scolare nella federa di un cuscino, appesa nella vasca da bagno di un appartamento sotto ai tetti a Venezia. Cose romantiche e un poco bohémien.

Con il tempo abbiamo affinato le tecniche, usato una garza di cotone (al posto della federa) e un colino. Ma il concetto è rimasto lo stesso, fino a quando Marie ha scoperto una versione infinitamente soffice e setosa in un ristorante libanese a Parigi e da allora lo facciamo montato.

La ricetta

1 kg di yogurt greco
1 cucchiaino di sale
2 cucchiaini di za’taar (idealmente, se non lo avete la spezia che preferite)
1/2 bicchiere di olio extravergine di oliva

La sera prima mescolate lo yogurt con il sale, foderate un colino a maglie fini con una garza di cotone e versateci dentro lo yogurt. Annodate la garza per formare un pacchettino e conservate tutto in frigorifero appoggiando il colino su di una ciotola in modo che possa scolare l’acqua. Il giorno dopo si sarà formato il labneh. Toglietelo dalla garza e raccoglietelo in una ciotola con le fruste o con la planetaria cominciate a montarlo a velocità media incorporando l’olio a filo, come fosse una maionese. Condite con le spezie che preferite, sapendo che l’ideale è lo za’taar (una miscela di spezie profumatissima che incude origano, timo e altre cose preziose).

Pesto di salvia

Che di pesti non ce ne siano mai abbastanza, siamo noi la prova provata. Sui pesti ci abbiamo fatto un intero libro, eppure qualcosa di nuovo scappa fuori sempre, anche e soprattutto in quarantena.

Nella spesa di verdure della settimana scorsa era entrato anche un volitivo mazzetto di salvia che qui non è roba semplice da trovare già normalmente, figurati adesso. Serviva per una ricetta della nostra rubrica sul sito dell’Istituto di Valorizzazione dei Salumi Italiani, in calendario a breve.

Fatta la ricetta rimanevano parecchie foglie che in un’epoca diversa da questa avrebbero finito per languire sul fondo del cassetto delle vedrure nel frigo, ma qui, cercando di uscire il meno possibile, di tutto quello che entra facciamo un uso assolutamente minuzioso.

Dunque abbiamo fritto le foglie più grandi e più belle, in una pastella semplice che ci ha insegnato Marie a Castellina tanti anni fa e il resto è diventato pesto, in versione vegana che così se lo pappa anche il Fotografo con tagliatelle di farro integrali, home made, ça va sans dire…

La ricetta


20 g circa di foglie di salvia fresche
60 g di noci
20 g di nocciole tostate
1/2 spicchio di aglio
un pezzetto di scorza di limone non trattato (senza la parte bianca)
mezzo cucchiaino di succo di limone
sale o acidulato di Umeboshi
olio extravergine di oliva

Tritate le foglie di salvia (lavate e perfettamente asciugate) con le noci e le nocciole, unite lo spicchio di aglio, la scorza e il succo di limone. Aggiungete in fine l’olio extravergine di oliva e regolate con sale (o umeboshi).

dip di carote, zenzero e Kombu

Che fate voi dell’alga Kombu? Io personalmente me ne dimentico. Ne abbiamo comprate quantità imprudenti quando sull’onda della rivoluzione salutista del Fotografo ho ceduto a quella vecchia malattia (che credo di portarmi dietro da sempre) che mi spinge compulsivamente verso ogni ingrediente nuovo, esotico o ancora peggio lontano nel tempo (praticamente il massimo del romanticismo).

Poi però l’alga Kombu (come del resto le sue sorelle) è rimasta lì, nello stipetto dell’armadio verde senza trovare una sua collocazione nè nella dispensa nè tanto meno fuori da quella… perché tocca dirlo i primi tentativi con un ingrediente nuovo non sono sempre esiti felici, ben più spesso finiscono per gridarci in voce forte e chiara che la cosa è semplice: se non l’hai usato fino ad ora una ragione ci deve pure essere…

Per fortuna Marie è una testolina rossa e un cuore indomito. A fine novembre ha fatto un viaggio in Bretagna e per qualche giorno si è fermata alla Pointe du Raz, la punta estrema dell’estrema Bretagna, quella che guarda agli Stati Uniti.
Siccome è un’anima romantica si è messa a calcolare che soltanto 5379 km a volo di uccello la separavano da New York e a me pare di vederla, dritta sulla scogliera, avvolta nelle sue sciarpe guardare ad Occidente. E poi proprio lì, in quel luogo mutevole di colori cangianti, di nuvole veloci e di vegtazione brulla si è rifugiata in un piccolo caffè con dentro una piccola libreria, uno scrigno del desiderio che vorresti avere sotto casa. Caldo accogliente, luminoso con una scelta intelligente (!) e curatissima per i libri di cucina, sguardo acceso sulla cucina sana.
Lì, in quell’angolo di finis terrae ha scovalo la nostra nuova bibbia sulla cucina delle alghe. E l’alga Kombu ha finalmente  avuto un senso, toccava solo arrivare alle soglie del Nuovo Mondo e guardare indietro verso Oriente.

 
 

La ricetta (tratta da La cuisine des algues di Xa Milne, ed. Rouergue)
4 o 5 carote
mezza cipolla rossa
4 cm di zenzero fresco
10 cm di alga kombu (fresca o reidrata per 5 minuti in acqua calda se secca)

Salsa di ispirazione giapponese che può accompagnare un pesce bianco, un pesce affumicato, carne fredda oppure spalmata sul pane come abbiamo fatto noi.
Riunire tutti gli ingredienti, tranne la salsa di soya, sale e pepe nel mixer e fare girare fino a quando il tutto non si è sminuzzato. Se la consistenza sembra troppo secca, aggiungere un cucchiaio in più di acqua. A questo punto aggiungete la soya, il sale ed il pepe. Si conserva per qualche giorno in frigo.

 

 

millefoglie di cachi vaniglia, caprino e pepe

Ci mettiamo sempre un poco a carburare. Stocchiamo le cose, le ricette, le scorte, le idee e qualche volta pure i regali, specie se preziosi. In questo caso trattavasi di lussuosa polverina scura, mix (o per dirla con maggior lignaggio blend) di pepi (alcuni mai sentiti) e sesami (sì, sì al plurale) che Francesco Apreda aveva generosamente elargito durante la sua chiacchierata con Gianluca Biscalchin nello stand S.Pellegrino durante Taste Roma (era estate…. sigh!).
La polverina ci è tornata in mente in un vorticoso esercizio (in realtà molto, molto semplice) di associabilità. Tutto è iniziato con  l’essiccazione paziente di alcune fette di cachi vaniglia (pare che in Giappone sia un calssico!?), da lì il passaggio all’idea di una millefoglie, lo scarto netto della declinazione dolce, la scelta del caprino perché a base acidula, i grani di seseamo nero per un minimo di croccantezza e la polverina fatata.

del “citron confit” e dei suoi usi (e abusi)

La ricetta oggi sarebbe quasi da vergognarsi a postarla, perché i citron confit, ovvero i limoni messi via con il sale e in qualche caso l’olio, sono stati ampliamentissimamente postati, fotografati e descritti un po’ ovunque nella blogosfera, mangereccia e non solo. Ma il fatto è che se non si prova, non ci si crede, e siccome pur avendo un giardino di limoni a disposizione ci sono voluti anni per decidersi a farli, ora che il vaso di Pandora si è chiuso e riaperto è un mondo intero che si è spalancato. Enfasi a parte, è vero che da quando durante le vacanze siciliane abbiamo aperto il vaso di limoni al sale messo via esattamente un anno prima, non si è smesso di farne uso e abuso. Anche perché del limone al sale (come del maiale?) non occorre buttare via niente! Si può usare il limone, scorza, polpa o tutte e due e si può usare il sale, allo stato granuloso o in quello sciropposo che si forma con la lunga macerazione. Il risultato è in ogni caso profumo, da cui sono eliminate tutte le note agre che la fanno da padrone nel frutto fresco.
Sì, ma usare per cosa? Un po’ per tutto davvero, a crudo e a cotto: un esempio recente qui e qui e una cosa bolle in pentola per domani.

insalata di salmone, avocado e pompelmo rosa (in tazza)

Visto che anche l’ultimo avocado di produzione autoctona è stato ormai consumato toccherà aspettare l’anno prossimo per averne di nuovi, ma c’è da dire che almeno quest’anno la fioritura è stata promettente. Ci si consola, si fa per dire, con questa non-ricetta di insalatina fresca giocata sul filo dei contrasti, di gusto e di consistenza. Così la frutta (il pompelmo rosa pelato a vivo) fa la parte dell’amaro granuloso e liscio, l’avocado autoctono gioca il tipo burroso, dolce e vellutato, lo spinacino fresco ci mette il crudo asprigno mentre il salmone che si nasconde sul fondo è la nota salata. Tutto semplice.

lassi di cannellini

Non è stagione, va bene. Ma ci sono a volte esigenze che trascendono la stagionalità, per esempio una dannata operazione ai denti che costringe ad adattare la cucina alle esigenze di una dieta liquida e per di più fredda. Dunque nella sua semplicità, il lassi di cannellini, è una non-ricetta figlia della necessità che in questi giorni è stata declinata in ogni variabile possibile di profumo e/o spezia. E così si finisce per scoprire che i limiti a volte aguzzano la creatività e che, con qualche giorno di anticipo, scaviamo pure nelle ragioni dell’illuminarsi di meno (la giornata giusta è in realtà il prossimo venerdì) perché cucinare senza sprecare energia, calore, chilometri può essere quasi un esercizio estremo…

zuppa fredda di melone e vin santo alla menta

Nella casistica dei misteri più fitti, e finora irrisolti, della storia del giallo (anzi qui si vira un po’ sull’arancione) c’è quello del perchemmai maite non possa vedere, neanche odorare, figuriamoci assaggiare il melone! Vabbé, ne ho viste io di stranezze, direbbe Maigret. E no! perché la lista della frutta proibita continua con fichi, uva, anguria… e allora il caso è archiviato, insabbiato: troppo scabroso! Marie e il fotografo si vedono di nascosto, in soffitta (però sui tetti di roma, alfresco: non male) per non farsi scoprire, e per l’occasione stappano un VinSanto coi fiocchi. Ed ecco la prima fresca zuppetta di primavera (o è già estate?) …

branzino marinato (tre volte)

C’è il sospetto fondato che il branzino sia il pesce prediletto di questo sito, cosa che se non è completamente esatta è però certamente vera perché oltre che buono è versatile, il branzino si trova facilmente in questa stagione e ha pezzature diversificate.
Questa versione poi, scovata e rielaborata in un libro dello slow food che raccoglie ricette delle osterie venete, è estrosa e alchemica, per niente difficile per quanto un tantino lenta… tre marinature: la prima di 24 ore, la seconda pure e la terza di 72…
serve dire che ne vale la pena?

tortina di brie

 

Contro ogni apparenza, credeteci, questa non è la torta di nozze del fotografo.
Non solo. Questa torta non è nemmeno un dolce, alla panna e con lo zucchero per capirci, ma è fatta di formaggio, farcita di formaggio e decorata di formaggio, quasi completamente.
Funziona un po’ come una torta chantilly di quelle classicissime: disco di pandispagna, o di génoise, tagliato a strati e farcito nel mezzo, solo che qui la forma di pandispagna è in realtà una forma di brie, farcita di qualche sorpresa e decorata un po’ in trompe-l’oiel con uno “stucco” alimentare a base di mascarpone.
Il risultato è assolutamente scenografico e adatto, pure lui, a farsi portare in giro come dono, ad aprire o a concludere pranzi/cene/brunch anche per un numero di ospiti ragionevolmente imprecisato.
In più si può preparare con un certo anticipo ed è piuttosto facile da mettere in cantiere, solo contate di metterci un po’ di pazienza per decorarla (!) anche perché per reperire la “ciliegina”, quella giusta e solo soltanto lei, vi potrebbe pure capitare di dover girare mezza Roma in un’affollatissima domenica di dicembre…   

alici marinate allo zenzero

Le alici sono pesciolini sobri e timidi, ma a guardarli bene (e pulendoli si guardano bene… anche da dentro…) sono l’incarnazione stessa del pesce, tutto però in miniatura! Occhi grandi e lisca tesa, dorso d’argento e carni rosate, con una consistenza speciale che certe preparazioni, forse in particolar modo la marinatura, sono in grado di esaltare. In questa versione le abbiamo marinate con aceto e limone (insieme) e zenzero e peperoncino… 

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