C’è in silenzio in cucina? Oppure a tendere bene l’orecchio quello spazio tra i fuochi, il lavello e il tavolo grande è un luogo chiacchierone, pieno di parole e di cose da dire e da dirsi? Siamo sicuri che, a parte le giornate convolse in cui molte mani pensano insieme al pranzo di Natale o alla torta di un compleanno speciale, non ci siano discorsi felpati anche quando siamo da soli con le mani in pasta?
Io ci ho creduto da sempre. Almeno da quando recalcitrante mi facevo confinare a letto di mala voglia, sapendo che di là la vita continuava nella mani di mia madre (o di mia nonna). Al mattimo contavo sul fatto che avrei trovato meraviglie, ma non era tanto il risultato che mi interessava quanto l’essere lì sveglia a vedere e ad ascoltare quello che succedeva.
Certo qui ci sono di mezzo certi riti di iniziazione che credo siano passaggi obligatori nella vita di molte famiglie, ma non è tutto lì. C’è proprio un discorso che si inizia a parlare quando si inizia a cucinare, a lavare una zucchina a piangere con una cipolla, a pulire un calamaro. Consistenze e parole.
Ci ho ripensato durante la settimana più fredda del millennio, quando mi sono ritrovata in mano per mille passaggi generosi un libricino delicato fino dalla copertina: una storia giapponese come solo le storie giapponesi sanno essere minuta e minimale, fatta di passetti leggeri con dentro la vita anche quella più drammatica.
Il libro parla molto di cucina e parla soprattutto di dolci giapponesi, argomento del quale non so personalmente assolutamente nulla.
Sentir parlare di An (una confettura dolce di fagioli azuki), di Dorayaki, Monaka, Sakurayu ha avuto l’effetto straniante e vagamente consolatorio di farmi sentire ignorante: la cucina è una biblioteca sterminata in cui non si finirà mai di poter leggere.
Quando però la dolcissima signora Takue racconta la sua poetica relazione con la natura del cibo, degli ingredienti tra le mani ho desiderato forte di tendere l’orecchio. Per quanto esotico sia per me il suo cibo mi arriva forte e chiaro il messaggio che è universale quanto il fatto stesso di mangiare, o così almeno dovrebbe essere.
“Si tratta di osservare bene l’aspetto degli azuki. Di aprirsi a ciò che hanno da dirci. Significa, per esempio, immaginare i giorni di pioggia e i giorni di sole che hanno vissuto. Ascoltare la storia del loro viaggio, dei venti che li hanno portati fino a noi.
Sono convinta che in questo mondo ogni cosa abbia il dono della parola”
Durian Sukegawa, Le ricette della signora Tokue, Einuadi 2018.
Così sulla scia dell’entusiasmo ho comprato gli azuki, non si poteva fare altrimenti. Poi mi sono ricordata che è difficile cuocerli, cuocerli bene intendo, e del resto la stessa signora Tokue lo ripete in mille passaggi e in mille cure di cui li circonda. Ho avuto paura e lì mi sono ricordata di un altro libro, di un’altra terra minimale ed esoticissima: l’Isalanda di Sotta Eiriksdottir, autrice di Raw, un libro bellissimo (e difficile!) dedicato alla cucina crudi-vegana.
Così per ora ho evitato di cuocerli gli azuki, in attesa di trovare il coraggio. Ma non ne ho fatto cucina (almeno non per la pancia…) ma maschera di bellezza, trasformandoli in farina.
La ricetta è semplicissima e prevede di tritare finemente gli azuki fino a ridurli in una farina fine per poi stemperarne con acqua piccole quantità alla volta, fino ad ottenere una consistenza giusta per sparlmarla sul viso. A metà tra uno scrub e una vera e propria maschera la ricetta potrebbe essere secondo me migliorata sostiteundo all’acqua qualcosa di più conistente, forse gelatina di semi di lino come per il tonico antifreddo?
PS Un grazie speciale e grandissimo a Lucilla che mi ha prestato il libro e a Ilaria che glielo ha regalato.
2 Comments
e con queste tue parole assaporo il piacere dell’attesa di leggerli, gli Azuki, e di tenerli tra le mani….
Ciao!
Grazie Luci! Ti faccio fare pure “un giro” con la maschera per la pelle… fa miracoli!