Guardo a questa foto (che abbiamo usato come “copertina” del corso di novembre di luce artificiale che si è concluso ieri), e penso che mi porta diretta diretta a Santa Lucia. Un poco per le girelle, che somigliano ai Lussekatter svedesi con le code arrotolate tipiche del 13 dicembre, un poco per i fiammiferi. Insomma questioni di dolci nordici e di luce che scende. In una parola inverno.
Per la verità qui a Barcellona continuiamo con un veranillo (un’estate di San Martino?) soleggiata e caldissima (22 gradi ieri…) che ci piglia un poco in giro visto che siamo reclusi in casa, in una quarantena scolastica. Ma l’importante è crederci e quest’anno stiamo saltelando tra le date e le feste del calendario un poco a piacimento: un giorno è Natale e quello dopo prendiamo il sole in terrazza.
Tutto un tantino schizofrenico, ma ci prendiamo il lato buono, ovvero l’anarchia di fare il tempo che ci piace almeno dentro casa!
Per l’impasto delle girelle ho usato l’impasto del pull-apart-cinnamon-bread di Linda Lomellino (versione con lievito), ricetta qui: https://lacucinadicalycanthus.com/?p=12552
Una volta completata la lievitazione dell’impasto l’ho steso esattamente come per il pull-apart-cinnamon-bread poi l’ho spalmato di crema pasticcera, ho aggiunto un pugno grande di uvetta ed ho arrotolato formando un salsiccione. Poi con un coltello a lama larga ho tagliato fette di circa 2 cm di larghezza, le ho sistemate sulla teglia ed ho lasciato lievitare al riparo fino al raddoppio. Poi infornato a 180°C per circa 30 minuti.
Abbiamo conosciuto Sara d’estate qui a Barcellona. Una di quelle cose belle che ogni tanto succedono nella rete e dalla rete escono, diventano fisiche e molto reali.
Era la fine di giugno, faceva caldo, nulla sapevamo di mascherine, distanze, precauzioni e confinamenti. Si viaggiava facilmente, si usciva a cena, e in pasticceria c’era solo il profumo incredibile dei croissants, senza code alla porta, senza gel disinfettante. Un’altra vita a guardarla da qui.
Abbiamo pranzato insieme nel nostro mercato, al Bar Joan dove, un poco come al Maigret di Simmenon a cui conservano il tovagliolo, sanno sempre quel che ci piace, quello di cui abbiamo bisogno. Abbiamo condiviso indirizzi, abbiamo fatto da guida e alla fine ci siamo ritrovati tutti insieme sul terrazzo di casa per la festa del mio compleanno, già un poco clandestina, ma solo per colpa dei vicini brontoloni.
Insomma un piccolo colpo di fulmine, così come Sara ha scritto nei calorosi ringraziamenti che ci ha dedicato nel suo libro, uscito da poco anzi da pochissimo.
Sara ha una bella storia un poco romantica, un sorriso aperto, una bimba poco più piccola di Anna, gonne svolazzanti e un compagno con cui gioca anche a pingpong e che lo vedi da come la guarda il bene che le vuole.
Ora che siamo tutti un poco distanti, ancora per un poco, tutti questi ricordi sono più preziosi e ci aiutano a immaginare la forza con cui torneremo a codividere e ad abbracciarci, così come è stato in quella sera d’estate sul nostro terrazzo qui a Barcellona. Mentre aspettiamo ci sono cose che non smettono di viaggiare, i libri e la cucina ad esempio
La ricetta è di Sara, tratta dal suo libro Dolci senza bilancia in cui è proposta in due diverse versioni (morbida e croccante): noi abbiamo scelto quella morbida e aggiunto le mele. Nel libro le indicazioni delle quantità sono in doppia modalità (con e senza bilancia) per non avere nessuna scusa per non preparare un dolce…
La ricetta
Per la frolla: 100 g di burro freddo 4 cucchiai di zucchero a velo (60 g) 1 +1/2 bicchiere di farina (150 g) 1 tuorlo 1 cucchiaio raso di acqua fredda 1/2 cucchiaino di sale
Per la crema: 1 bicchiere + 5 cucchiai di latte (250 g) 2 tuorli 1/2 bicchiere di zucchero (85 g) 2 cucchiai rasi di farina (20 g 1/2 cucchiaino di sale 1/2 bacca di vaniglia o scorza di limone
Taglia il burro a cubetti e versalo in un robot da cucina o nella planetaria assieme allo zucchero a velo (per una frolla più croccante usa quello semolato). Mescola bene a massima velocità alta fino ad ottenere una crema (se si fa con le mani attenzione a non scaldare troppo l’impasto). Unisci il tuorlo, la farina e l’acqua e lavora in modalità pulse finché gli ingredienti non legheranno tra loro. Il composto non deve risultare compatto ma un po’ sbriciolato. Rimuovilo dal robot e compattalo tra le mani formando un panetto. Posizionalo tra due fogli di carta da forno e stendeli con il mattarello. Lascialo freddare così in frigorifero per 30 minuti.
Preparare la crema. In un pentolino scalda a fiamma moderata il latte con i semi della vaniglia, incluso il bacello svuotato (oppure con la buccia grattugiata del limone o dell’arancia). Copri il pentolino con della pellicola trasparente, così da trattenere l’umidità senza che evapori. Porta a bollore e rimuovi dal fuoco. Nel mentre in una ciotola mescola zucchero e tuorli, evitando di lasciarli a contatto fra di loro senza prima mescolarli. Aggiungi il sale e la farina setacciata. Mescola energicamente con una frusta a mano. Versa piano 1/2 del latte caldo all’interno dela ciotola, mescolando con la frusta continuamente. Una volta ottenuto un composto liscio, rovescialo nel pentolino con ilrestante latte senza rimuovere il bacello e riaccendi il fuoco a fiamma moderata. Dovrai girare finché la consistenza della crema non comincerà a diventare più densa. Di tanto in tanto fermati per vedere se in superficie appaiono delle bollicine: appena le vedrai spegni il fuoco e travasa subito la crema in una ciotola pulita. Adesso è importante continuare a mescolare con la frusta: così diventerà più lucida. Conservare la crema conservandola con pelicola trasparente a contatto, sempre con il bacello all’interno per conferire più profumo.
Rivesti uno stampo da crostata. Prendi la crema ed emulsionala per qualche secondo con una frusta a mano. Poi usala per farcire la crostata e impiega le rimanenze dell’impasto per decorare il dolce con delle striscioline. Riponi in frigorifero per 30 minuti poi inforna a 170°C in forno preriscaldato con modalità ventilato per 35-40 minuti.
Nota: nella nostra versione in cui abbiamo utilizzato esattamente queste dosi (e non i multipli come indicato da Sara) abbiamo scelto una forma piccola (circa 20 cm di diametro) e abbiamo sistemato sopra alla crema fettine sottilissime di mela irrorate di succo di limone)
Qui a Barcellona la crema catalana è ovviamente solo crema, o al massimo crema cremada, come è ovvio che sia. Non le servono aggettivi, nè soprattutto patronimici, se non quello di Sant Joseph che è l’altro nome con la quale è conosciuta.
In questi anni ne abbiamo provate parecchie a dimostrazione del fatto che la crema è una gloria della cucina tradizionale catalana, in casa e fuori, e non soltanto un souvenir per turisti distratti a cavallo tra las Ramblas e la Sagrada Familia. Anche le ricette, come è giusto che sia, sono molte, con grandi e piccole variazioni soprattutto in tema di dolcezza e di uova.
Ma la sostanza resta ancorata a due capisaldi, facilmente travisati dalle molte versioni di crema catalana che si trovano all’estero: la consistenza e la bruciatura.
La crema (catalana) non è un budino e nemmeno una pasticcera, se proprio la dobbiamo paragonare a qualcosa è vicina a la crème anglaise, quella che per carità non deve bollire. Dunque tenetela morbida, quasi liquida: dal cucchiaino deve voluttuosamente scivolare non in pezzi ma in “colatura”.
La crostina di zucchero bruciato sulla superficie della crema è il banco di prova di tutta la questione. Deve rompersi al centro con un rumore di vetro in frantumi: non uno stratino timido di caramello semiliquido ma una vetrata modernista! I consigli per riuscirci sono: 1. abbondare con lo zucchero (inutile andarci piano) 2. caramellare solo all’ultimo minuto (senza mai passare per il frigorifero!) 3. usare un cannello professionale, ma ancora meglio l’attrezzo specifico che va reso incandescente, quindi potete (anzi dovete!) dimenticarvelo sul fuoco
Per il resto la ricetta è semplicissima: noi facciamo affidamento su quella “certificata” nel Corpus de la cuina catalana.
1 litro di latte 8 tuorli 200 g di zucchero 40 g di amido 1 stecca di cannella la pelle di un limone non trattato
Portare a bollore il latte con la cannella e la scorza di limone (che eliminerete al momento di aggiungere il latte agli altri ingredienti). In una terrina mescolare i tuorli con lo zucchero; aggiungere il latte (meno mezzo bicchiere) e amalgamare perfettamente. Stemperare l’amido nel latte rimanente e aggiungere al composto. Mettere sul fuoco (dolce!), mescolando continuamente fino alle prime bollicine. Spegnere immediatamente. Versare la crema in piatti o formine e lasciar raffreddare. Appena prima di servire cospargere di zucchero (abbondante), bruciare e servire.
Capita in un pomeriggio di gnocchi (sì, sì quelli classicissimi che si amministrano di giovedì e che invece noi abbiamo rimandato a un sabato romano giusto così per inaugurare la cucina…) che mentre le patate cuociono sulle piastre nuove e sibilanti ci si dica con innocenza: ” e se facessio un dolcetto?” Certo, e che ci vuole! Solo che il forno sta lì, ma deve ancora essere imbullonato, la dispensa è così colma di piattini, tazzine, bicchieri che di cose da mangiare ce ne sono ancora poche, per non dire pochissime.
E allora sedute con i gomiti sul tavolo si comincia la litania: i biscotti di Elena tocca rimandare, quella torta che è in lista da sei mesi pure anche, l’ultimo numero di Saveur meglio non guardarlo nemmeno, finché Marie si fa rossa di intuizione: ti ricordi quella crema pasticcera senza latte a Identità? Eh certo, giusto, la crema, sì facciamo la crema, come quella della mamma, ma visto che il gioco è giocare, mettiamoci qualche variazione, così togliamo il lattè e mettiamo il tè.
È già passata qualche settimana da quando il fotografo è passato per la Catalunya e prima che scappi di nuovo è bene che lasci un piccolo segno perché poi possa ripartire senza rimorsi. Qualche santo da festeggiare (mangiando) c’è sempre, e aspettando sant Jordi ricordiamoci di sant Josep, (Giuseppe, 19 marzo)
appena passato e dedicatario non dei bignè ma della Crema Cremada (in poche parole la Crema Catalana).
Ecco allora nella foto tutti gli ingredienti per una tavola domenicale in qualche “Can..” della Catalunya profonda, e non solo di 19 marzo: la crema, il pane tostato per l’aglio e il pomodoro, il porron con il becco per bere “a canna” (il vasetto di alioli c’era, giuro, ma prima del dolce il cameriere l’ha portato via!).
Sapori belli forti! E anche la crema (cremada=bruciata) pur condividendo il nome è un po’ più tosta della sorella francese (crème brulée), non si cuoce a bagnomaria, non si usa la panna ma solo latte, non si usa vaniglia ma limone e cannella.
Qui di rondini nemmeno l’ombra! svolazzano ancora sulle palme africane.
Allora dev’essere un bignè a far primavera. Ma uno di quelli irresistibili, che Laura non ha più bisogno di leggere nel ricettario del papà (un pasticcere del litorale romano che già abbiamo scomodato…) perché ormai è una delle sue specialità.
Ce li ha fatti per festeggiare il suo compleano, anche se a Roma si fanno nei dintorni di san Giuseppe, il 19 marzo, alle porte della Primavera.
E siccome il compleanno di Laura è già passato (auguri lo stesso), usiamoli come formula magica per fare un fischio alla Primavera, che non si attardi troppo a svolazzare su quelle palme, laggiù in Africa.
La settimana, si è capito, è votata al latte. Sarà l’arrivo di un autunno in verità ritardatario, sarà la recente scoperta di un distributore automatico vicino casa dove “mungere” 24h/24, sarà che si presta a declinazioni di ogni ordine e misura, dal molto-semplice all’ultra-complicato, dal dolce al salato passando per le vie di mezzo…
Questa qui, poi, più che una ricetta è una risorsa, da tirare fuori quando si ha voglia di qualcosa che coccola tanto e costa poca fatica, che riconforta come una coperta perfettamente calda, perfettamente lunga, perfettamente giusta.
Una sola avvertenza per questa minestra che è facilissima: bisogna farne sempre tanta, perché a nessuno restino i piedi scoperti…
Fidatevi! Nonostante le apparenze è proprio una zuppa di birra.
Una zuppa di birra di quelle dal gusto fortemente nordico, austriaco, altoatesino e in fine trentino perché è proprio da un libro di cucina di questa complicata regione che la ricetta, con qualche variazione, viene (Alessandro Molinari Pradelli, La cucina del Trentino-Alto Adige).
“Zuppa di birra dal gusto nordico” nel senso che prevale la presenza del latte, del burro e della panna e tutto si gioca sul delicato equilibrio fra il dolce di questi alimenti (più lo zucchero, ma giusto un cucchiaio…) e l’amaro della birra. Ci si aggiunga pure la cannella e la scorza di limone e si avrà una marca indelebile di montagne, di mucche, di laghi, di freddo e di calduccio della stube, di tetti aguzzi e di cielo terso e pure di birra… Maite che qui ci è cresciuta si ricorda ancora della gita delle elementari agli stabilimenti Forst…
La vena è ancora quella dei ricordi, la materia ancora la zucca comprata al mercato dalla signora Fausta sabato scorso, il resto un esercizio di stile alla Quenau della serie come faccio questo senza quello e quello senza questo?
Partiamo dall’inzio, cioè da Parigi alla fine dell’erasmus quando proprio sotto casa tra la rue keller e la rue de lappe abbiamo assistito alla nascita di un bellissimo bar del tutto particolare senza alcolici e senza caffè ma tutto dedicato alle zuppe, il bar à soupes appunto.
Anne Catherine Bley, che se l’è inventato, ha declinato le zuppe in mille modi, secondo le stagioni e gli ingredienti, da mangiare in loco o da portare a casa e dalla sua esperienza è nato anche un libro (guido tommasi editore) ritrovato in Italia molti anni dopo…
Volendo fare una zuppa di zucca dunque era inevitabile aprire il suo libro che ha tutta una sezione dedicata alla vellutata di portiron, assecondando così anche l’onda lunga dei ricordi parigini che in questi giorni sta dilagando… ma panna o crème fraiche in casa non ce n’era, dunque in cerca di ulteriori suggestioni l’occhio è finito su un libricino-quaderno arancione-zucca e tutto ovviamente alla zucca dedicato edito dalla Kellermann, ma anche lì, nel quaderno delle zucche, per fare la ricetta di “zuppa con qualche pretesa” mancava il whisky…
Dalla mancanza nasce l’ingegno e così scovata una bottiglia di crema di whisky di ignota provenienza si è pensato che metteva insieme due ingredienti mancanti, la panna e il whisky, ci abbiamo aggiunto nocciole tostate ed era fatta, perché come dice Anne Catherine la soupe c’est bon, c’est simple et c’est surtout pas triste!
La signora Fausta porta al mercato di piazza delle erbe, due volte la settimana, quello che cresce nel suo campo e nella sua vigna. Questo sabato (oltre a una verdura sconosciuta e assolutamente mai vista di cui non è ancora ben chiaro cosa fare) aveva della splendida uva, piccola, turgida e viola acceso. La signora Fausta ha provato a interrogare: chi sa dire che uva è? siccome nessuno la sapeva, come una maestra paziente, la risposta l’ha data lei: Moscato rosa!
A quel punto, sedotti a puntino, l’abbiamo portata a casa (assieme alla verdura misteriosa e un sedano rapa e mezzo) e ci abbiamo fatto un gelo, dolce dolce e profumato…
Anche questo è tradizionale, di casa e pure siciliano ma la verità è che questo dolce sensuale e profumatissimo è quasi un filtro magico, che dedichiamo a Luca per il suo compleanno.
Semplice e con poche pretese nella preparazione presuppone però alcune accurate attenzioni, la cura di piccoli particolari che sembrano relativi e sono invece capaci di renderlo speciale… innanzitutto i limoni: freschi, possibilmente verdi (sono più profumati) e biologici, poi l’infusione: una notte intera di meditazione, la cura nel mondare la buccia scartando la parte bianca (che è amara) e la pazienza di filtrare tutto…
Qualche tempo fa avevamo postato la ricetta di un tradizionale biancomangiare, siciliano e di mandorle, una di quelle ricette di famiglia che si considerano proprio di casa, salvo poi scoprire che le versioni sono tante e diffuse, perlomeno in quell’area mediterranea accomunata dall’olio d’oliva, dall’aglio, dal pomodoro e da lingue e dialetti che si richiamano e si inseguono.
Così nel libro di cucina minorchina, che tanto abbiamo spiluccato (Menorca, gastronomía y cocina, Triangle postals, Menorca 2005), ne abbiamo trovato un altro di biancomangiare: una specie di versione povera fatta solo di latte, amido e aromi, ed in effetti scavando nella memoria (e chiedendo alle mamme e alle nonne) è saltato fuori il ricordo di questo sapore (un po’ antico a dire la verità) e di una versione più ghiotta che prevedeva che la crema una volta rappresa su un piatto piano venisse infarinata e fritta.
Qui ci siamo limitati alla versione quasi light, limitando (di poco) anche la proporzione di amido…
Un nome indovinato è già una promessa. E questo promette delizie infantili: dolce grasso di nuvola distillata (il tocino è il grasso del maiale, il lardo, la parte saporita, “il più buono”!), essenza di sole duro della meseta spagnola o di Andalucia.
Come tutte le ricette tradizionali sono in molti a contendersene l’invenzione: pasticceri di Palencia e monache di Jerez, che usavano le “chiare” dell’uovo per schiarire lo sherry e dovevano pur inventare un modo di usare i tuorli!
Il tocinillo è un flan cotto a bagnomaria, fatto unicamente di uova, zucchero e acqua. Subito vengono in mente mille variazioni, eccone intanto una basica, al sapore di limone.
La ricetta è turca, facile e soprattutto fresca. Si potrebbe intendere come una sorta di tzatzichi, con le carote al posto dei cetrioli e con meno (molto meno…) aglio. A differenza del cugino greco questa cremina richiede un passaggio rapido dalla padella, giusto per far ammorbidire le carote, ma ugualmente va mangiata fredda spalmata sul pane (l’ideale sarebbe tipo pita), oppure con verdurine fresche come un pinzimonio.
In questa versione agli ingredienti della ricetta tradizionale è stato aggiunto lo zenzero per dargli un po’ più di verve, ma la cosa è facoltativa e allo zenzero si possono sostituire molte altre possibili variabili, ad esempio il cumino. Non resta che provare…
Bianco, morbido e profumato di mandorla..
la ricetta è siciliana e antica, arrivata dalla Francia nel XII secolo sembra dotata di virtù dolcissime se è vero che Matilde di Canossa la mise nel delicato menù per la riconcilzione tra un papa e un imperatore ( wiki ).
Per prepararlo serve un po’ di tempo e un po’ di pazienza, come si addice ai cibi nobili con ambizioni diplomatiche, ma il risultato non ha nulla di pretenzioso, anzi… fresco e delicatissimo, ha un sentore di tradizione, sa un po’ di nonna, un po’ di Sicilia antica…