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Pull-apart cinnamon bread alle nocciole (con licoli)

Il nome è una cosa impossibile, ma da quando l’ho adocchiato sul libro di Linda Lomellino non me lo levavo dalla testa. L’occasione non veniva mai, poi c’è voluta la pandemia per capire che una ragione non serve, o meglio che una la si trova sempre.

Per metterla in cantiere, a parte una piccola dose di coraggio iniziale, c’è voluto un certo incrocio di ricette e di aggiustamenti, per cui alla fine la nostra ricetta non somiglia molto alla sua. La pasta è quella della torta delle rose del Sant Jordi di quest’anno, ma al posto del lievito di birra abbiamo usato licoli, cosa che ha comportato la consultazione di duemila tabelle in cui i numeri sembravano uscire a caso. Alla fine abbiamo fatto una media, ragionato per intuito e sembra che la cosa sia uscita bene.

La ricetta
per la pasta
120 g di licoli (oppure 3 g di lievito secco)
440 g di farina Manitoba (500 se usate lievito secco)
60 g di latte o di acqua (120 se usate lievito secco)
50 g di zucchero
40 g di burro morbido a pezzettini
3 uova
1 cucchiaio di grappa

per la farcitura
100 g di burro
90 g di panela
1 cucchiaio di cannella in polvere
40 g di nocciole tritate (o anche noci)

Setacciate la farina e sistematela nella ciotola della planetaria. In un’altra ciotola stemperate il licoli con l’acqua e aggiungete un cucchiaio di zucchero prelevato dai 50 g previsti per l’impasto (se lavorate con il lievito di birra meglio usare il latte: intiepiditelo ma senza che scotti, stemperateci il cucchiaio di zucchero e quindi li lievito secco).
Nella ciotola della planetaria mescolate la farina con lo zucchero rimanente, aggiungete la grappa e quindi il lievito. Lavorate a bassa velocità finché il composto non sarà omogeneo, quindi aggiungete un uovo alla volta lasciandolo incorporare bene. Quando l’impasto comincia a incordarsi aggiungete il burro morbido a pezzetti in tre volte, aspettando che sia perfettamente legato all’impasto. Aumentare la velocità e lavorare per circa 10 minuti. Corpire l’impasto e lasciare lievitare coperto finché non raddoppia (con il lievito di birra le cose saranno molto più rapide che non con il lievito madre, ma calcolate che in circa 3-4 ore dovreste esserci).
Nel frattempo preparate la farcia. Montate il burro morbido con lo zucchero, aggiungete la cannella in polvere e le nocciole tritate fini. Conservate a temperatura ambiente.
Una volta raddoppiato di volume riprendete l’imapsto, rovesciatelo sul piano leggermente infarinato e sgonfiatelo con delicatezza. Quindi stendetelo in un rettangolo di circa 48×30 cm e spalmateci sopra la farcia al burro. Il metodo di Linda Lomellino prevede di ricavare sei strisce di circa 8×30 cm per poi sovrapporle una sull’altra, tagliare quindi 6 quadrati e ottenere 6 pile da sei. Sembra complicato e forse un poco lo è, soprattutto perché maneggiandole le strisce di impasto si deformano un poco. Più semplicemente si può tagliare il rettangolo di impasto in strisce orizzontali e poi verticali in modo da ottenere dei quadrati più o meno regolari.
Si tratta quindi di raccoglierli e di impilarli un poco disordinatamente per poi sistemarli orizzontalmente in uno stampo da plum cake ben imburrato.
Un’ultima lievitazione sotto un panno pulito al riparo dalle correnti d’aria per almeno 2 ore, o comunque finchè l’impasto non sia ben cresciuto. Infornare a 170°C per 30 minuti nella parte bassa del forno, poi altri 10 a media altezza verificado che non scurisca troppo e nel caso coprendo con carta argentata.

Il primo pane

Finalmente. Finalmente, e con un senso di sollievo grande come una casa, sono finalmente riuscita a sfornare il mio pane.

In questo periodo stranissimo, nella stranissima quarantena che stiamo passando insieme, lontani ma connessi, ognuno (o quasi) ha fatto il suo pane. Partendo quasi sempre dal lievito madre, e così ho fatto anche io.

Ma mentre vedevo ovunque lieviti e pani grandi e rigogliosi che gridavano a gran voce la loro voglia di vivere io spiavo il mio barattolo, lento e fermo, timido forse. Non riuscivo nemmeno a dargli un nome, mentre ho scoperto che tutti i lieviti cresciuti in casa ne hanno uno.

Insomma al pane tocca un poco iniziarsi. Ed io ero, lo ammetto, restia. Forse il lievito lo sentiva, forse la paura (mia) e le bolle (sue) stanno in un rapporto inverso, ma insomma gli inizi non sono stati facili.

Così adesso che ho in mano il mio successo non scriverò della ricetta, perché quella, con mille preziosi consigli ,è di Laura. La trovate sul suo bellissimo blog, in una sezione tutta dedicata ai pani e ai lievitati che per me è stata una manna (video delle piegature compreso). Io ho solamente mescolato le noci con le nocciole (perché non ne avevo abbastanza) e usato farina di grano semi integrale e farina di farro nelle proporzioni della ricetta.

Ho voglia invece di scrivere delle difficoltà, di quello che mi è risultato difficile capire o provare, visto che ora mi trovo giusto sulla soglia dell’iniziazione. Non so se continuerò, o se lascerò stare ma in ogni caso mi pare un buon momento per raccontare cosa ci è successo.

  • la nascita del lievito è una roba semplice ma pure complicata, finanche mistica. Metti insieme farina e acqua e aspetti che succeda qualcosa. Io ho rinunciato allo starter (cioè una base in genere dolce: miele, zucchero, frutta che innesca e aiuta la fermentazione naturale), ma forse, tornando indietro, una spinta gliela darei. Soprattutto perché il mio lievito è nato in una stagione strana: a parte la pandemia in corso era quello strano momento dell’anno in cui in casa i termosifoni sono spenti ma fa ancora freddino; quindi ho il sospetto che nei 6 giorni che ha trascorso fuori dal frigo abbia avuto freddissimo, peggio che il Fotografo…
  • La farina è importante, ma tocca non essere troppo intransigenti. Proprio come le mamme all’inizio dello svezzamento ho preteso di essere super-organica! Ovviamente non solo farine bio, il meno manipolate possibile, ma anche integrali. Il lievito però ha i suoi gusti e vorrebbe mangiare a grandi bocconi farina forte, manitoba o giù di lì. Mettiamoci pure che con la difficoltà di approvigionamento del periodo gli ho cambiato spesso la dieta, è successo che ha “mangiato poco” ed è cresciuto lento. Almeno penso, ma forse era semplicemente il tempo che gli ci voleva ed io ero ad essere impaziente.
  • Le pieghe mi han fatto sempre un po’ paura, ma veramente non c’è ragione. L’unico punto da tenere in conto è che non bisogna sporcarsi le mani. Le pieghe non sono mettere le mani in pasta, ma qualcosa di simile al riporto, fa tutto la spatola o il tarocco, si tratta solo di accompagnare. Son cose ovvie, mi rendo conto, ma a capirle per davvero ci ho messo il mio tempo.
  • A far bene, oltre alle parole servirebbero anche due o tre oggetti da iniziati. Il cestino per la lievitazione, la cocotte in ghisa per la cottura e la lametta da barba per fare quelle bellissime incisioni sulla superficie. Io non avevo e non ho nulla, nemmeno la possibilità di uscire a comprarmi almeno il cestino come in altri momenti sicuramente avrei fatto. Il Fotografo ha la barba lunga, dunque nemmeno si rade ma sono riuscita lo stesso, usando una specie di terrina larga che ho dai tempi dell’università per far riposare l’impasto e un coltello affilato per le incisioni. Probabilmente ho infarinato troppo poco lo strofinaccio con cui ho foderato la terrina perché l’impasto, una volta rovesciato, si è un poco appiccicato. Non fate come me ma soprattutto ricordatevi di non metterlo in lavatrice direttamente!
  • è importante calcolate i tempi. La ricetta di Laura è semplice, non ha tempi bibblici, ma io, colpa anche dell’insicurezza con cui muovevo ogni passo, mi son trovata a cuocerlo tra le 24.58 e l’1.32.
  • Poi una volta sfornato finalmente il mio pane ho trovato anche il nome, ma non chiedetemi perchè, il mio lievito si chiama Justino.

Lingue di suocera

Ha 12 giorni e riposa nel frigorifero. Il mio lievito madre, in versione liquida (altrimenti detto Licoli), non ha ancora un nome ma non posso dire di non essermi già affezionata.

Anzi a dirla tutta in queste due settimane scarse mi sono molto preoccupata di lui e per lui.

Non sono sicura che vada come dovrebbe andare, spio le sue bolle, faccio tacche sul barattolo dove lo metto a riposare e mi domando due volte al giorno se ho fatto bene ad essere integralista e fare a meno dello starter.

Ho ricevuto consiglio preziosi: da Sergio, da Francesco, anche indirettamente da Luca e mi sono chiesta se questa “covata” del lievito (e poi a venire del pane) non sia una cosa maschile.
L’inquietudine diventa maggiore verso sera, quando viene l’ora di rinfrescarlo e poi metterlo a nanna. Questa faccenda di doverne buttare metà mi fa sentire in colpa verso una cosa viva (sigh!) ma anche verso le farine che lo hanno nutrito e che sono bene prezioso, sempre per carità, ma in questo momento in una maniera molto più tangibile.

Poi penso a mia nonna, quella paterna che si chiamava come me e che ho conosciuto appena; lei, al paese, faceva il pane in casa tutte le settimane e mandava mio padre bambino a prendere il “cresciente” dalla vicina. Poi diventava rossa rossa, sempre nel racconto di mio padre, per lo sforzo di quell’impastare a mano tutto il pane di una settimana.
Non credo che avesse le mie inquietudini, il lievito madre, anzi il “cresciente” non era un esperimento di autarchia (e diciamocelo di piacere…) ma una necessità e, ancora più semplicemente, un fatto.

Insomma di cosa mi sto realmente preoccupando?

Per fortuna Marie, come spesso succede mi ha tolto dalle peste. Lei che è più giovane ed ha comunque sempre avuto una memoria migliore della mia si è ricordata di alcune ricette di quel genio di Manuela Conti per l’utilizzo della pasta madre in esubero.

Ora rinfresco senza sensi di colpa e inforno lingue di suocera, tutte le sere.

La ricetta

La ricetta è proprio quella di Manuela che trovate per esteso qui, ho solo dovuto modificare la faccenda del latte perché in casa in questo periodo proprio non ne abbiamo. Ho dunque alzato un poco l’olio e abbozzato una proporzione pressapoco che però ha funzionato a meraviglia.

100 g di licoli
150 g di farina (per me semi-integrale)
35 ml di olio extravergine di oliva
25 ml di acqua
sale in scaglie
erbe aromatiche

Mescolare il licoli con l’acqua e la farina, imcorporare quindi l’olio extravergine e formare una palla. Lasciare riposare coparta per circa 30 minuti quindi dividere in pallette regolari e stendere con il mattarello delle stisce di circa 25 cm. Pennellare con olio extravergine di oliva e lasciare riposare altri 15 minuti, circa. Completare con il sale e le erbe ed infornare in forno caldo finché non si dorano.

Il lievito madre di Francesco

L’adolescenza non è tempo di mezze misure. Tutto è tremendamente serio, terribilmente assoluto, tutto è una questione di principio.
Francesco ha 13 anni e mezzo, un’anima musicale e una quarantena da passare, in casa come tutti noi. Così ha deciso che voleva cominciare da zero, dall’acqua e dalla farina perché, come scrive, quello è il fondamento e pure il passaporto.

La sua idea di usare questo tempo per mettere le basi, ci è piaciuta moltissimo, così che pure qui a Barcellona ci siamo decisi. Che sia un augurio: poi viaggeremo con tutte le carte in regola!

Ho deciso di preparare da solo il lievito madre perché mi sono messo a fare il pane e perché mi è venuto il desiderio di produrlo completamente da solo, dall’inizio alla fine. Il lievito madre è un fondamento, un passaporto per qualsiasi prodotto da forno. Si parte da zero, acqua e farina e poi però ci vogliono un sacco di giorni prima che sia attivo, pronto. E ora i giorni ci sono. È come un fratello, bisogna “rinfrescarlo” che per me è dargli da mangiare ogni due giorni. Gli ho dato un nome, si chiama Tore, un nome rozzo e un po’ sardo.” Francesco

Una ricetta vera questa volta non c’è. O meglio ne esistono così tante che ognuno deve trovare la sua strada, oltre che la sua scuola. Francesco si è lanciato su un lievito madre vero e proprio (100 g di farina per 50 g di acqua come principio di tutto), io, che sono più pavida, son partita con il lievito madre liquido, o licoli (100 g di farina per 100 g di acqua) che mi giurano essere di più facile gestione.
Si sa che con l’età si diventa codardi.

Poi i procedimenti diventano un poco alchemici: quando la prima fermentazione è avvenuta si comincia a “rinfrescare”, prelevando una parte di lievito e la stessa parte di farina, poi metà di acqua per Francesco (che deve nutrire il suo lievito solido che ha chiamato Tore…) e stessa parte di acqua per me (che nutro quello liquido che ancora non ha un nome…).
Vedremo come andrà a finire, ancora una volta a cavallo tra Roma (dove abita il lievito di Francesco) e Barcellona dove abita da ieri il nostro.

Intanto Anna (la mamma di Francesco) ci racconta come è la loro vita in quarantena, tra l’entropia inevitabile della condivisione e la meticolosità di chi pone le sue basi. Anche in cucina.

“In tre in settanta metri quadri stipati di strumenti, bassi, contrabbassi, piani e pianole, la convivenza non è semplice. Tutti a casa, contemporaneamente, tre telefoni, tre computer, tre che parlano in tre stanze diverse, lezioni a distanza, lavori a distanza, problemi a distanza. Voci, suoni, schiamazzi, ognuno a blaterare come un pazzo nel suo angolo di mondo del nostro appartamento al quinto piano.Zona franca è la cucina, da sempre spazio condiviso, senza TV, con il suo rituale familiare. Nella vita ordinaria, tendenzialmente cucino io, non perché più brava, ma perché più veloce (sicuramente la mia dote principale, forse unica), Carlo si immola e pulisce e Francesco molla il cellulare sul divano e accorre quando è pronto. Ma ora viviamo una realtà distopica, i ruoli e i tempi si distorcono e le posizioni ai fornelli anche. E così io mi trovo imprigionata in lunghe preparazioni cui nella vita vera non mi dedicherei mai e poi mai, Carlo, neo-salutista, è predicatore e re di insalate e verdure e Francesco, adolescente che non ammette intromissioni, senza che avessi il tempo di realizzarlo è passato dai biscotti fatti insieme con le formine a saper usare le funzioni dei robot da cucina meglio di me, e a fare il pane, con precisione e una meticolosità tale che lo ha spinto a prodursi da solo il lievito madre”. Anna

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